VII ► Il settimo comandamento è inciso nella memoria di tutti con quell’imperativo scandito da due parole, «Non rubare», in ebraico Lô tignôb .
In realtà, come gli studiosi hanno da tempo osservato, quel verbo sottintende un orizzonte più ampio del furto di oggetti: comprende anche il sequestro di persona, compiuto in quei tempi durante le razzie. In pratica, oltre alla rapina è di scena il rapimento ed è questo il significato primario del precetto, per cui dal quinto all’ottavo comandamento avremmo la sequenza dei diritti fondamentali della persona: la vita, il matrimonio, la libertà, l’onore. La tutela del diritto alla proprietà apparirebbe, invece, nel nono e decimo comandamento.
Sottolineiamo, allora, prima di tutto questo tema capitale per la dignità della persona: l’evento stesso dell’esodo dalla schiavitù egizia, che funge da contesto del Decalogo, è centrato proprio sulla libertà, un aspetto primordiale nella definizione della creatura umana. Infatti, come si legge nella Genesi, l’uomo è creato e posto sotto l’albero della conoscenza del bene e del male, libero nella sua decisione di accogliere da Dio la morale o di costruirla lui stesso, rapendo il frutto del bene e del male.
È questa una visione tipica della Bibbia, a differenza delle culture circostanti che consideravano l’uomo come l’impasto della polvere del suolo col sangue di un dio ribelle e sconfitto: secondo questa concezione, nelle nostre vene non potrebbe che scorrere il male a cui saremmo irrimediabilmente votati.
Ben diversa è la persona secondo la Sacra Scrittura: «Dio da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere. Se vuoi osserverai comandamenti: l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà» (Sir 15).
Per questo, dittature, oppressioni politiche, sociali o economiche, strutture che strappano artificiosamente il consenso, egemonia della seduzione televisiva, sistemi subdoli di avvincimento, oltre alla schiavitù in senso stretto, ancora attiva, violano radicalmente questo precetto. Significativa è la durezza della sentenza: «Chi rapisce un uomo, sia che lo venda sia che lo tenga in mano sua, sia messo a morte» (Es. 21).
Il settimo comandamento, però, comprende pure l’accezione comune, la condanna del furto, anche perché sottrarre al prossimo un bene necessario per la sua vita è un altro modo per renderlo schiavo. Sul furto delle proprietà si ha tutta una serie di norme puntuali che si possono leggere subito dopo il testo del Decalogo, ove si insiste sul risarcimento del danno, evitando le vendette tribali eccessive che potevano condurre all’uccisione del ladro: «Se uno ha rubato un bue, un asino o un agnello e li ha conservati vivi, restituirà il doppio» (Es 22, 3).
Naturalmente il furto può avere aspetti diversi, come si legge in questo monito: «Non rimuovere il confine del tuo prossimo che hanno posto gli antenati nel tuo possesso» (Dt 19,14). Tuttavia la Bibbia è sempre attenta a riconoscere il primato della destinazione universale dei beni: ogni uomo deve avere la possibilità di «trarre alimento dalla terra… Tutti da te, Signore, aspettano che tu dia loro il cibo in tempo opportuno: tu lo provvedi, essi lo raccolgono; tu apri la mano, si saziano di beni» (Salmo 104).
In questa luce la proprietà personale o familiare o nazionale è solo un mezzo per attuare questa distribuzione generale dei beni. Chi prevarica sul prossimo attraverso il furto -privato o pubblico (sottraendo beni delle comunità o violando le leggi fiscali)- pecca perciò anche contro Dio: infrange, infatti, l’ordine della creazione, accaparrandosi egoisticamente quelle risorse che Dio ha destinato al bene comune e alla dignità di tutte le persone e di tutti i popoli.
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