Se il fine supremo delle virtù è il progresso delle masse, la
mitezza, indubbiamente, è la virtù che eccelle su tutte. Essa non
suscita il risentimento delle persone che giudica colpevoli, anzi, dopo
averle condannate, le mette in condizione di farsi perdonare. E' la
sola, inoltre, che, emula del dono divino della redenzione universale,
ha esteso i confini della Chiesa, frutto del sangue del Signore,
esercitando un'azione moderatrice con consiglio salutare e di natura
tale che le orecchie degli uomini sono in grado di prestare ascolto, le
menti non fuggono lontano, gli animi non nutrono timore.
Chi infatti, si propone di correggere i difetti della fragilità umana
deve sorreggere e, in qualche modo, soppesare sulle sue spalle la
debolezza stessa, non già disfarsene. Il pastore, quello ben noto del
Vangelo, non ha abbandonato la pecora stanca, ma se l'è messa in spalla.
Salomone dice: "Non essere troppo giusto". La dolcezza ha il compito,
appunto, di lenire la giustizia. Con quale animo, infatti, si potrebbe
sottoporre alle tue cure chi hai in antipatia ed è convinto che sarà non
già oggetto di pietà, bensì di disprezzo da parte del suo medico?
Gesù ha avuto misericordia di noi non per allontanarci, ma per
chiamarci a sé. E' venuto mite, umile. Ha detto: "Venite a me, voi tutti
che siete affaticati, e io vi ristorerò". Il Signore, dunque, guarisce
senza eccezioni, senza riserve. A ragione, ha scelto discepoli che,
interpreti del suo volere, raccogliessero e non tenessero lontano il
popolo di Dio. Ovviamente, non sono da annoverare tra i discepoli di
Cristo coloro i quali pensano che la durezza sia da preferire alla
dolcezza, la superbia all'umiltà e che, mentre invocano per sé la divina
pietà, la negano agli altri ...
Negare il perdono, infatti, cosa
significa se non togliere ogni incentivo a pentirsi? Contrito di tutto
cuore può essere soltanto chi nutre fiducia nella clemenza.
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