XXIV DOMENICA T.O.
“I
miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8); oggi il Signore ci fa fare
l’esperienza dell’abisso tra il Suo modo di “pensare e di agire” e il nostro.
“Se
tuo fratello commette una colpa contro di te …” (Mt 18,15); “Se il mio fratello commette colpe contro di
me …” (18,21); siamo nello stesso
contesto di Domenica scorsa e il Signore continua a mostrarci come reagire nei
confronti di chi compie qualcosa di male nei nostri confronti.
Domenica ci ha affidato la responsabilità
di correggere (etimologicamente significa guidare
dirittamente), - atteggiamento legittimo, anzi direi doveroso, che
significa tentare in tutti modi di aiutare il fratello a riconoscere il male
fatto -. La correzione, a differenza del giudizio che, invece mira a ferire (“non
giudicate e non sarete giudicati”), porta con sé il desiderio di salvezza,
non di distruzione dell’altro. Correggere è risanare. La correzione ha a che
fare con il voler bene, per questo spera la presa di coscienza e il
cambiamento, vuole essere come la cura rispetto alla malattia. La cura non è
necessariamente indolore, anzi può fare molto male, ma ha come scopo la
guarigione; correggere e perdonare non significano non chiedere conto o non
cercare di impedire il ripetersi del comportamento cattivo.
Sappiamo bene però che non a ogni
correzione corrisponde automaticamente il cambiamento. Riconosciamo la nostra
personale difficoltà alla conversione, per meravigliarci troppo di quella
altrui.
Che fare allora?
Tagliare i ponti e lasciare
andare l’altro alla deriva? Maledire e recriminare? Abbiamo la consapevolezza
di non potercelo permettere; quel “settanta
volte sette”, annunciato a Pietro, afferma con chiarezza la chiamata a
perdonare sempre e comunque. I rabbini insegnavano che Dio perdona solo due
volte, alla terza punisce. Pietro va ben oltre l’insegnamento ufficiale, ma
Gesù sorpassa ogni pur ottimistica prospettiva umana. Il sette indica la
pienezza e i suoi multipli indicano la pienezza di pienezza.
Che cose grandi ci chiedi, Signore! Ascolto
le tue parole, ma faccio mie le parole del profeta Daniele: “il mio colorito si fece smorto e mi venivano
meno le forze” (Dn 10,8).
Ebbene, Gesù ci chiama a non rinunciare
alla correzione, accompagnandola però sempre con il perdono. Tutto ciò non ha
nulla a che fare con il buonismo imperante, dove tutto è giustificabile e
giustificato e non si chiede conto dei comportamenti peccaminosi. Non
dimentichiamo le parole di Gesù: “Io non
voglio la morte del peccatore, ma che si
converta e viva”. Gesù vuole la guarigione, quindi non la morte, ma nemmeno
la permanenza nella malattia. Egli non consente mai la permanenza nel peccato. Correzione
e perdono sono le due facce della stessa medaglia e incarnano concretamente il
comandamento dell’amore.
Per non sentirci obbligati a questo
comando del Signore, non possiamo liquidarlo,
dichiarandolo ingiusto o troppo difficile. Altrimenti valgono anche per
noi le parole dette da Gesù a Pietro: “Va’
dietro a me, Satana, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
Non dimentichiamo che al dovere di
perdonare, corrisponde il diritto a essere perdonati. Non possiamo sopravvivere
senza il perdono, sia quello divino, ma anche quello degli uomini. Il perdono è
indispensabile alla salvezza e al benessere dell’umanità. Senza perdono non c’è
vita.
Sappiamo molto bene però che il perdono
non può essere il frutto del semplice sforzo di volontà; e non serve pensare
alle grandi sofferenze che ci possono essere inflitte, per riconoscere tale
fatica. Il perdono è il frutto dell’amore. Chi non ama non può perdonare,
perché non ha nessun interesse alla salvezza dell’altro. Chi non ama o è
indifferente alla “guarigione” altrui o addirittura la vuole impedire. Mi ha
fatto impressione leggere sul Corriere della Sera che il governo norvegese non
intende mutare il suo atteggiamento nemmeno nei confronti dell’attentatore
massone e nazifascista che ha ucciso tanti giovani alcune settimane fa; anche a
lui è riconosciuto il diritto a essere “salvato” e corretto. Eppure anche
costui ha un debito di 10.000 talenti (enorme cifra se consideriamo che il re
Erode aveva rendite per 900 talenti annui).
Parlare di quel caso può però sviarci,
perché si comincia subito a pensare ai casi estremi, mentre il Signore ci
chiama al perdono a partire dalla quotidianità, fatta di tante ferite subite e
inferte.
E’ assolutamente inutile chiederci come
faremmo se fossimo nei panni di chi ha subito i grandi drammi, perché sono solo
astrazioni. Possiamo però lasciare illuminare la nostra attuale e ordinaria
esistenza da queste parole del Signore e permettergli di provocarci.
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