Per molti fedeli, a quanto pare, è diventato il momento più temuto
della messa. L’omelia del sacerdote produce sempre più scenari
disarmanti. I più tenaci guardano l’orologio. Altri invece si arrendono
facilmente al gruppo di teste ciondolanti tra i banchi. Una vera
penitenza sembra suggerire uno spassosissimo quanto interessante
libretto dal titolo esplicito: Avete finito di farci la predica?
Riflessioni laicali sulle omelie (Effatà, pp. 160, euro 10) di Claudio
Dalla Costa. Ma al di là della vena ironica, il volume esprime una
condivisibile preoccupazione per lo stato di salute dell’omelia.
L’allarme
viene da lontano se già alla fine degli anni ’60 il cardinale Yves
Congar affermò: «Nonostante trentamila prediche domenicali la Francia è
ancora un paese cattolico». Eppure è stato un tema centrale nell’ultimo
Sinodo dei vescovi e anche monsignor Mariano Crociata, segretario
generale della Cei, non ha usato giri di parole per dire che ormai le
omelie domenicali sono ridotte a «una poltiglia melensa», quasi una
«pietanza immangiabile» o, comunque, ben «poco nutriente». Il cardinal
Tomas Spidlik peraltro non era stato meno sferzante: «Il motivo per cui
la Chiesa ha posto il Credo dopo l’omelia è per invitarci a credere
nonostante ciò che abbiamo ascoltato». La questione è allora tutt’altro
da ridere. Nei giorni scorsi su Vatican Insider il vaticanista della
Stampa, Marco Tosatti, ha rivolto un appello provocatorio al Papa per
arginare il problema: «Stop per un anno alle omelie. Mandiamo i preti a
scuola di giornalismo e qualcuno li obblighi a non superare i cinque
minuti...».
Non si tratta però di fare la predica, men che meno in questo caso.
Perché nessuno può salire sul pulpito per puntare il dito su un compito
così difficile per i sacerdoti. Non lo farebbero per umiltà nemmeno
Bernardino da Siena o Antonio di Padova, veri maestri della
predicazione. Ma di certo urge una riflessione per provare a cambiare
rotta. Con questo spirito abbiamo interpellato don Fabio Rosini,
biblista e direttore del Servizio diocesano vocazioni del Vicariato di
Roma, nonché apprezzato commentatore del Vangelo domenicale su Radio
Vaticana.
C’è davvero un problema di comunicazione nelle omelie oggi?
Senza ovviamente dare giudizi, ci sono delle difficoltà. Scontiamo
innanzitutto una deriva secolare: per rispondere alla riforma luterana
che aveva negato le opere, la Chiesa dovette giustamente sottolineare
l’esortazione alle opere cristiane. Abbiamo accentuato questo approccio,
ecco perché ancora oggi nelle omelie sentiamo sempre l’urgenza di
arrivare al momento del fervorino morale che scade nel moralismo. Il risultato? Ci siamo dimenticati di spiegare la fede.
In che senso?
Non si può parlare in un’omelia senza spiegare il “perché” degli atti cristiani:
solo l’esortazione risulta sterile. Mi prendono in giro perché ripeto
spesso “ma questo a che cosa serve?”. Ma è necessario spiegare il
segreto della nostra fede. I concetti cristiani vengono spesso fraintesi
o banalizzati. Per esempio ascoltando la parabola dei talenti pensiamo
subito alle qualità personali, e invece sono i beni del Padrone. Bisogna
smontare quelle visioni caricaturali della fede, inaccettabilmente
superficiali. Basta partire anche dall’etimologia delle parole. Questa è
la prima generazione alfabetizzata della storia: la gente è più colta
ed è esperta nelle tecnologie informatiche. Dobbiamo fare uno
sforzo qualitativo per cui in ogni omelia la fede va spiegata, non
possiamo darla per scontata, ritorniamo alle fondamenta, allo stesso
concetto di Dio. E la gente ti segue, me ne rendo conto già ora.
È quindi un problema di contenuti?
Anche. Ma soprattutto di postura. È un atteggiamento che consiste
nello spiegare quant’è bello ciò che noi celebriamo. E non tendere
moralisticamente sempre ad ottenere il risultato delle opere, perché non
si può servire Qualcuno che poi in fondo non conosciamo. Il moralismo è proprio pretendere che una persona faccia una cosa che non ha la forza o le motivazioni per fare.
E invece dobbiamo dare le motivazioni. Quando uno è innamorato non c’è
bisogno di dire: “Devi fare questo!”. Lo fa senza indugi. Allora il
problema non è dire ciò che si deve fare, ma far innamorare.
Corre in questo senso anche la proposta di catechesi sui Dieci
Comandamenti, che ha lanciato e fondato lei e che ormai si è diffusa a
macchia d’olio in tutt’Italia…
Sì perché c’è bisogno di recuperare l’essenza della Parola di
Dio e di una maggiore comprensibilità della fede, come insegna
Benedetto XVI. Dobbiamo trasmettere ai giovani la grandezza, la
bellezza, il peso meraviglioso dell’esistenza: la vita è fatta per le
cose straordinarie. È un compito che attiene a ogni battezzato,
ma che interpella innanzitutto noi sacerdoti. E purtroppo siamo
latitanti sul compito dell’ammaestramento: sappiamo forse celebrare,
organizzare e governare bene la comunità, ma ancora poco profetizzare.
Chi la spiega la fede se non la spieghiamo noi sacerdoti? Siamo poco
preparati a una generazione molto informata, che non è formata
cristianamente. Bisogna sviluppare l’esercizio di essere maestri della fede, recuperare la dimensione di Gesù come rabbi (maestro). Quel linguaggio didascalico che dall’annuncio (il kerigma) porti alle opere, sia cioè in grado di tradurre in vita la realtà annunziata dai Vangeli.
Eppure Paolo VI diceva che oggi l’uomo ascolta più volentieri i testimoni dei maestri…
Già, ma il testimone è uno che parla. Importante è che il maestro non sia solo un enunciatore. Paolo VI sosteneva la necessità di entrambi.
Ma quanto possono incidere le omelie?
Tantissimo. E oggi purtroppo c’è un problema comunicativo. Non è
facile. Bisogna essere autentici e parlare autenticamente. Siamo tutti
molto deboli, anch’io faccio tanti errori. Devo però riuscire a
interessare l’altro. C’è il rischio di fare dell’algebra teologica, del
presentare una fede staccata dalla vita quotidiana. E il
problema delle omelie non è la lunghezza, ma di andare alla sostanza.
Importante è che la gente esca dalla messa con una chiave per vivere
meglio. Che abbia la possibilità di confrontarsi con la tenerezza di
Dio. E capisca quanto valga la pena di seguirlo.
Qual è il suo metodo?
Io conservo il mio orecchio ateo, quello che avevo prima della conversione, per ascoltarmi.
Mi ascolto sempre molto criticamente, non mi trovo mai soddisfacente.
Spesso quando parlo questo orecchio mi dice: “Ma che stai a dì?”. “Sei
noioso, questo non serve a niente, stai facendo solo il moralista”… È un
principio autocritico molto utile.
Ma si insegna ancora omiletica nei seminari?
Non mi sembra. Potrebbe senz’altro essere utile riprenderla. Ma non
vorrei che si riducesse a copiare le moderne tecniche di comunicazione
di massa. Non è una questione di tecnica: un innamorato sa parlare della sua innamorata.
Il cuore della vita di un sacerdote è essere innamorato del Signore
Gesù Cristo, amarlo veramente. Non c’è una tecnica che può sostituire il
fuoco che bisogna avere nel cuore. E le parole si trovano sempre quando
quel fuoco è acceso.
Gia! è difficile per ogni sacerdote fare l'omelia, ma posso dirvi che il mio vecchio parroco, nella sua semplicità ed umiltà riesce a farci stare svegli, al contrario di "qualche" giovane sacerdote che nella presunzione di voler comunicare in modo giovane e con termini allorchè squallidi, non ci fa capire niente. Il segreto del mio vecchio parroco??? Prepararsi all'omelia con la preghiera e invocando lo Spirito Santo. Dio lo benedica!
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