Quando feci il noviziato a La Verna,
ricordo che c’era un vecchio frate, Leopoldo, incaricato di fare la guida al
santuario. Ha svolto con grande zelo e passione per molti anni questo servizio,
ma aveva un limite: ripeteva sempre le stesse identiche parole. Una delle sue
frasi ricorrenti era: “Non esiste un
santo triste e se esiste è un triste santo”.
Mi è tornato alla mente questo detto,
quando ho visto che il Vangelo scelto per oggi, ci dona le Beatitudini.
Sappiamo che il termine ebraico qadosh che noi traduciamo, con santo, è riferito a Dio, il Santo per
eccellenza e significa separato. Quando si parla di santità, molti pensano
alla perfezione, alla mancanza di peccati, alla carità senza sbavature, a un
rapporto con Dio sempre intimissimo. Si tratta di cose adatte a una certa
letteratura agiografica, ma che non tengono conto fino in fondo della realtà. Se
la santità andasse a braccetto con la perfezione, saremmo nei guai e allora si
che si tratterebbe di un ideale molto alto, per pochi eletti, ma non per tutti.
In realtà i santi non sono persone
perfette - di alcuni di loro si
conoscono bene i limiti umani non indifferenti -, ma possiamo dire che
sono “Beati”.
Santità e beatitudine vanno necessariamente
insieme, anche se non nei termini che intendiamo noi. A volte pensiamo alla
vita cristiana in termini un po’ fantastici, quasi che il rapporto con Dio si
potesse raggiungere a un certo punto dell’esistenza e da lì tutto dovesse
diventare semplice. Se così fosse, una volta incontrato Dio san Francesco non
avrebbe più dovuto tribolare, invece lo troviamo profondamente inquieto fin quasi alla fine della sua vita.
Infatti l’incontro con Dio non è che
l’inizio di un cammino che, però non può mai arrestarsi, se non con il
passaggio da questa vita all’altra, perché l’esistenza cristiana è un continuo
lasciarsi trasformare in Cristo Gesù, fin a che si possa dire “non sono più io che vivo, ma Cristo che vive
in me” (Gal 2,20).
I santi sono beati, non perché vivono
sempre in letizia, cantando e parlando con gli uccellini, godendo della
quotidiana dolcezza di Dio, ma perché sono entrati nel regno di Dio come
cittadini e si lasciano plasmare da Lui; perché il Signore riesce a consolarli
nelle loro fatiche; perché sentono che Egli mantiene le sue promesse; perché
sono raggiunti dalla misericordia che gli consente di rialzarsi a ogni
inevitabile caduta; perché i loro occhi sono così trasparenti che riescono a
vedere Dio, anche dove nessuno lo riconosce; perché si sentono figli
prediletti, amati in modo particolare – anche se Dio ama tutti i suoi figli -;
perché pur essendo colpiti dalle fatiche della vita – a volte in modo tremendo
-, non ne sono schiacciati.
La santità non è tanto il frutto di uno
sforzo immane, ma di un grande desiderio, che si trasforma in accoglienza di
Dio.
I santi sono innanzitutto persone
accoglienti, perché desiderano ardentemente che Dio le raggiunga e porti con sé
i suoi doni. Chissà quante cadute e arresti vi sono anche nella loro vita, ma
essi si rialzano, non si arrendono, perché non sono disponibili ad
accontentarsi a “spendere denaro per ciò
che non è pane, il (loro) guadagno per ciò che
non sazia” (Is 55,2).
La beatitudine nasce dalla consapevolezza
di avere trovato il tesoro nel campo e la perla preziosa, ciò che è in grado di
saziare la loro esistenza.
Da questo incontro trasformante con Dio,
poi conseguono le opere di carità, a volte straordinarie, ma non per questo
meno faticose e demoralizzanti. I santi sono soprattutto coloro che hanno
saputo dare a Dio ciò che è di Dio e, quindi, a Cesare ciò che è di Cesare. Essi
hanno capito che per poter essere fecondi e generare vita, bisogna prima essere
fecondati.
Oggi noi ci lasciamo chiamare dai santi
riconosciuti e sconosciuti a non accontentarci più di un cristianesimo che non
attende Dio, che non accetta provocazioni, che cerca una perfezione angelica e
proprio per questo disumana. Essi ci dicono: “Se volete essere beati,
spalancate le porte a Cristo. Non preoccupatevi dei frutti da produrre, quelli
verranno inevitabilmente. Abbiate solo la preoccupazione di preparare uno
spazio ampio nella vostra vita a colui che vuole incarnarsi in voi”. Scrive M.
Delbrel: “Il Verbo vuol farsi carne in noi, impadronirsi di noi,
perché con il suo cuore innestato sul nostro, con il suo spirito comunicante
col nostro spirito, noi diamo un inizio nuova alla sua vita in un altro luogo,
in un altro tempo, in un’altra società umana” (La gioia di credere, p. 30).
sera fra Andrea,
RispondiEliminaho conosciuto fra Leopoldo, ma prima di conoscerlo avevo letto i libri su La Verna. Il giorno che andai a La Verna lui ci fece da guida e mentre lo ascoltavo pensavo "Ma io ste cose le ho già ascoltate, con le medesime parole". Alla fine compresi che la nostra guida era l'autore dei libri che avevo letto..... che ripeteva sempre le stesse cose... a tutti e a memoria, ma con tutto l'amore per Cristo e per S. Francesco.
Grande fra Leopoldo che oggi sicuramente è tra la moltitudine dei Santi. Grazie fra Andrea di avermi fatto pensare a lui