III DOMENICA AVVENTO
Uno dei trucchi usati dal principe di
questo mondo per ingannarci, è mantenere intatto il contenitore esterno di
tutto ciò che è stato portato da Gesù Cristo, cercando però di svuotarlo
lentamente del suo vero contenuto, così da renderlo inoffensivo.
Un esempio per tutti riguarda la Chiesa,
la quale al maligno non crea alcun problema, purché non sia la dispensatrice
della Grazia di Dio attraverso i sacramenti e la Parola, ma una semplice
associazione di volontariato, che accudisce i corpi degli uomini, senza preoccuparsi
troppo del loro spirito. L’Eucaristia gli va benissimo, purché sia solo una
riunione tra persone che desiderano stare insieme; così la confessione, basta
che sia un rito superficiale e raro, che non ha niente a che fare con la
conversione - egli non ha paura delle confessioni senza pentimento -; ci
consente di leggere la parola di Dio, purché serva per diventare più colti, non
per essere segnati da essa e cambiare
vita.
Anche il Natale entra a far parte di
questo processo. Giovanni Battista è venuto per “dare testimonianza alla luce … la luce vera, quella che illumina ogni
uomo” (Gv 1,7), eppure dietro la parola Natale, oramai sembra esserci tutt’altro.
Chiediamo in giro, sentiremo parlare di regali, di Babbo Natale, di albero di
Natale, di pace, di famiglia, forse anche di presepe, ma il Cristo, Dio
incarnato per raggiungere e salvare ogni uomo, è atteso?
Non desidero fare polemica o demonizzare
l’aspetto festoso del Natale – ben venga -, ma non posso tacere sul fatto che
la vera festa non sta in questo aspetto esteriore. Ciò che mi affascina è
sapere che il Signore è venuto per “portare
il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a
proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione ai prigionieri” (Is
61,1). Vedete, è questo che fa dire con il profeta: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio”
(61,10). Del resto ogni persona di buon senso attende proprio questo. Sappiamo
per esperienza, invece, che tutto il resto della festa è come la nube estiva o
la rugiada mattutina, dura un attimo, poi passa e va, senza lasciare segno.
Io come sacerdote, ma anche tutti noi
insieme dobbiamo essere quella voce che rende testimonianza alla luce, perché
di questo ha bisogno il mondo.
Giovanni Battista fa un’affermazione molto
bella; prima dichiara ai suoi interlocutori di essere solo un mediatore, come
quei segnali che troviamo lungo le strade e che ci indicano la via – anche noi
sacerdoti, per quanto mediatori del Cristo, dobbiamo dirvi: “Io non sono il Cristo”, guai se vi
fermate a noi -, poi afferma: “Colui che
viene dopo di me: a lui non sono degno di slegare il laccio del sandalo” (Gv
1,27). Nel popolo eletto nessuno schiavo ebreo poteva essere costretto a
sciogliere i legacci dei sandali del proprio padrone, quindi Giovanni Battista
con questa parole, riconosce che tra lui e il Cristo c’è un abisso. Egli sa di
essere come una lampada, ma Gesù Cristo è il sole. Forse però dietro queste espressioni c’è
qualcosa di più profondo. Non è impossibile infatti che egli si riferisca alla
legge del Levirato. In quell’epoca, quando una donna rimaneva vedova del marito
senza avere avuto figli, il cognato aveva l’obbligo di dare una discendenza al
defunto. Il figlio nato da questa unione avrebbe portato il nome del primo
marito. Questo fatto per noi inconcepibile, costituiva una tutela per la donna
che così non veniva rimandata alla famiglia di origine, che poteva anche
rifiutarla. Se il cognato rinunciava a unirsi a questa donna, colui che nella
scala giuridica veniva dopo di lui, procedeva alla cerimonia dello scalzamento.
La persona arrivava, scioglieva il legaccio dei sandali del cognato che
rifiutava l’unione, prendeva il sandalo lo alzava e ci sputava. In questo modo
il diritto passava a lui.
Giovanni sta dicendo probabilmente: io vi
annuncio il vero sposo, colui che renderà feconda la vostra sterilità, che farà
fiorire la vostra esistenza.
Eccoci allora in attesa dello sposo per
dirgli: Tu ci conosci uno per uno, perché ci hai disegnati sulle palme delle
tue mani, sai che cosa sanguina in noi; soccorrici. Ti presentiamo Signore le
nostre piaghe: fasciale!
Tu sai che cosa ci tiene
prigionieri e ci impedisce di essere liberi di seguirti: aiutaci a dare un nome
a chi ci tiene al laccio e, insieme a noi, combattilo. Siamo stanchi Signore di
essere legati a una catena invisibile, ma non per questo meno forte.
Tu conosci Signore la nostra
tenebra, quella portata dai peccati che abbiamo scelto di compiere, ma anche
quella della paura, della fatica, della solitudine, del disorientamento: vieni
e porta la tua Luce. Tu sei il sole che sorge e la tua luce vogliamo.
Del resto affermava sant’Ambrogio: “Dove
c’è la fede, ivi c’è la libertà” (Ep. 65,5: ubi fides ibi libertas).
Nessun commento:
Posta un commento