Testo integrale del saggio di Benedetto Croce
PERCHÉ NON
POSSIAMO NON DIRCI «CRISTIANI»
Rivendicare a se stessi il nome
di cristiani non va di solito scevro da un certo sospetto di pia
unzione e d'ipocrisia, perché più
volte l'adozione di quel nome è servita all'autocompiacenza e a
coprire cose assai diverse dallo
spirito cristiano, come si potrebbe comprovare con riferimenti che
qui si tralasciano per non dar
campo a giudizi e contestazioni distraenti dall'oggetto di questo
discorso. Nel quale si vuole
unicamente affermare, con l'appello della storia, che noi non possiamo
non riconoscerci e non dirci
cristiani, e che questa denominazione è semplice osservanza della
Il cristianesimo è stato la più
grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così
grande, così comprensiva e
profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile
nel suo attuarsi, che non
meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una
rivelazione dall'alto, un diretto
intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge
e indirizzo affatto nuovo.
Tutte le altre rivoluzioni, tutte
le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana,
non sostengono il suo confronto,
parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse
quelle che la Grecia fece della
poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del
diritto: per non parlare delle
più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica,
della medicina, e di quanto altro
si deve all'Oriente e all'Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che
seguirono nei tempi moderni, in
quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro
precedenti antiche, ma
investirono tutto l'uomo, l'anima stessa dell'uomo, non si possono pensare
senza la rivoluzione cristiana,
in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché
l'impulso originario fu e perdura
il suo.
La ragione di ciò è che la
rivoluzione cristiana operò nel centro dell'anima, nella coscienza
morale, e, conferendo risalto
all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse
una nuova virtù, una nuova
qualità spirituale, che fin allora era mancata all'umanità. Gli uomini, i
geni, gli eroi, che furono
innanzi al cristianesimo, compierono azioni stupende, opere bellissime, e
ci trasmisero un ricchissimo
tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi si desidera
quel proprio accento che noi
accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita
umana.
E nondimeno codesto non fu un
miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì
come forza trascendente e
straniera; e non fu nemmeno quell'altro e metafisico miracolo che alcuni
filosofi (e sopra tutti lo Hegel)
costruirono quando si diedero a pensare la storia come un processo
lungo il quale lo spirito
acquisti l'una dopo l'altra le parti costitutive di se stesso, le sue categorie
– a
un certo punto il conoscere
scientifico o lo stato o la libertà, e, col cristianesimo, l'intimità morale –,
perché lo spirito è sempre la
pienezza di se stesso, e la storia sua sono le sue creazioni, continue e
infinite, con le quali celebra
l'eterno se stesso. E come né i Greci né i Romani né gli Orientali
introdussero nel mondo quelle
forme universali di cui, per enfasi, li si dice creatori, ma in virtù di
cui soltanto produssero le opere
e le azioni con le quali toccarono altezze prima non toccate e
segnarono solenni crisi della
storia umana; così anche la rivoluzione cristiana fu un processo
storico, che sta nel generale
processo storico come la più solenne delle sue crisi. Tentativi,
precorrimenti, preparazioni si
sono notati del cristianesimo, come si notano per qualsiasi opera
umana – per un poema o per
un'azione politica –; ma la luce che quei fatti sembrano così
tramandare la ricevono di
riflesso, dall'opera che si è poi attuata, e non l'avevano in sé, perché
nessun'opera mai nasce per
aggregazione o concorso di altre che non sono lei, ma sempre e soltanto
per un atto originale e creativo:
nessun'opera preesiste nei suoi antecedenti.
La coscienza morale, all'apparire
del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò in modi
nuovi, tutt'insieme fervida e
fiduciosa, col senso del peccato che sempre insidia e col possesso della
forza che sempre gli si oppone e
sempre lo vince, umile ed alta, e nell'umiltà ritrovando la sua
esaltazione e nel servire al Signore
la letizia. E si tenne incontaminata e pura, intransigente verso
ogni allettamento che la traesse
fuori di sé o la mettesse in contrasto con se stessa, guardinga
persino contro la stima e la lode
e il luccicore sociale; e la sua legge attinse unicamente dalla voce
interiore, non da comandi e
preconcetti esterni, che tutti si provano insufficienti al nodo che di volta
in volta si deve sciogliere, al
fine morale da raggiungere, e tutti, per una via o per un'altra,
risospingono nella bassura
sensuale e utilitaria. E il suo affetto fu di amore, amore verso tutti gli
uomini, senza distinzione di
genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il
mondo, che è opera di Dio e Dio
che è Dio d'amore, e non sta distaccato dall'uomo, e verso l'uomo
discende, e nel quale tutti
siamo, viviamo e ci moviamo.
Da siffatta esperienza, che era
in un sol atto sentimento, azione e pensiero, una nuova
visione e una nuova
interpretazione sorgeva della realtà, non più cercata nell'oggetto, avulso dal
soggetto e posto al luogo del
soggetto, ma in questo che è l'eterno creatore delle cose e l'unico
principio di spiegazione; e
s'instaurava il concetto dello spirito, e Dio stesso non fu più concepito
come indifferenziata unità
astratta, e in quanto tale immobile e inerte, ma uno e distinto insieme,
perché vivente e fonte di ogni
vita, uno e trino.
Questo nuovo atteggiamento morale
e questo nuovo concetto si presentarono in parte
ravvolti in miti – regno di Dio,
resurrezione dei morti, battesimo per prepararvisi, espiazione, e via
dicendo –; passarono
laboriosamente da miti più corpulenti ad altri più fini e trasparenti di
verità; si
intrigarono in pensieri non
sempre portati ad armonia ed urtarono in contraddizioni innanzi a cui si
soffermarono incerti e perplessi;
ma non perciò non furono sostanzialmente quelli che abbiamo in
breve enunciati e, che ognuno
sente risonare dentro di sé quando pronunzia a se stesso il nome di
«cristiano». Una nuova azione, un
nuovo concetto, una nuova creazione di poesia non è e non deve
essere concepita, secondo che si
configura nell'astrazione e nella congiunta immaginazione, come
un qualcosa di oggettivamente
concluso e circoscritto, ma come una forza che si apre la via tra le
altre forze, e talora s'incaglia,
tal'altra si smarrisce, tal'altra ancora avanza lenta e faticosa o perfino
si lascia qua e là soverchiare
dalle altre forze che non può attualmente vincere del tutto e a sé
assoggettare e in sé risolvere, e
nelle sconfitte si ritempra e dalle sconfitte si rialza pugnace. E chi
voglia intenderla nel suo proprio
ed originale carattere deve sceverarla da quei fatti estranei,
sorpassare quegli incidenti,
vederla non già nei suoi impacci ed arresti, nelle sue aporie e
contraddizioni, nei suoi
erramenti e sviamenti, ma nel suo impeto primo e nella sua tensione
dominante, così come un'opera di
poesia vale per ciò che ha in sé di poesia e non per l'impoetico
che vi si frammischia o che si
porta seco in compagnia, per le maculae che sono anche in Omero e
in Dante. Si suol opporre, con
sentimento di diffidenza e con parola di critica rampogna, che a
questo modo si «idealizzano» le
dottrine e i fatti, e non li si rispetta nella loro integra realtà; ma
quell' «idealizzarli» (che non
chiude già gli occhi agli elementi estranei e agli incidenti, e punto non
li nega) non è altro, come
abbiamo detto, se non l'«intelligenza», che li intende. Si prenda a prova il
cammino contrario, e si pongano
sullo stesso piano i loghi e i miti, le coerenze e le incoerenze, le
certezze e le incertezze di un
pensatore; e la conclusione sarà necessariamente che quell'opera non
fu realmente un'opera, ma un
nulla, contraddittoria, viziata e corrosa da cima a fondo dagli errori: il
che volentieri usano di fare non
pochi critici e storici lieti, per quel che sembra, di ritrovare nei fatti
e nei pensieri e nelle opere
grandi del passato la stessa dispersione mentale e la stessa inerzia
morale, che è in loro.
Anche naturale e necessario fu
che il processo formativo della verità, che il cristianesimo
aveva così straordinariamente
intensificato e accelerato, si soffermasse a un certo punto,
provvisoriamente, e che la
rivoluzione cristiana avesse un respiro di riposo (respiro che in istoria
può essere cronologicamente di
secoli) e si desse un assetto stabile. E anche qui è stata accusata e
lamentata, e ancor oggi si
lamenta, la caduta dall'altezza in cui l'entusiasmo cristiano, si moveva, e
il fissamento, il
praticizzamento, il politicizzamento del pensiero religioso, l'arresto del suo
fluire, la
solidificazione che è morte. Ma
la polemica contro la formazione e l'esistenza della chiesa o delle
chiese è tanto poco ragionevole
quanto sarebbe quella contro le università e le altre scuole in cui la
scienza, che è continua critica e
autocritica, cessa di esser tale e vien fissata in catechismi e manuali
e la si apprende bella e fatta,
sia per valersene a fini pratici, sia, negli ingegni ben disposti, come
materia da tener presente per i
nuovi progressi scientifici da compiere o da tentare. Non è dato
eliminare dalla vita dello
spirito questo momento, nel quale si chiude il processo cogitativo della
ricerca con l'acquistata fede e
si apre quello della pratica azione, in cui la fede si trasfonde. E se
questa chiusura per un verso
sembra, e in certo senso è, la morte (e sia pure l'eutanasia, la buona
morte) della verità, perché la
verità genuina sta unicamente nel processo del suo farsi, è, per un altro
verso, di conservazione della
verità per la sua nuova vita e per la ripresa di quel processo, quasi
sempre protetto e nascosto che
germoglierà e getterà nuovi rampolli. Così la chiesa cristiana
cattolica foggiò i suoi dogmi,
non temendo di formulare a volte il non pensabile perché non a pieno
risoluto nell'unità del pensiero,
il suo culto, il suo sistema sacramentale, la gerarchia, la disciplina, il
patrimonio terreno, l'economia,
la finanza, il giure e i tribunali suoi e la correlativa casistica legale,
e studiò e attuò accomodamenti e
transazioni con bisogni che né poteva estinguere o reprimere né
lasciar liberi e disfrenati; e
benefica fu l'azione sua, vincendo il politeismo del paganesimo e i
muovi avversari che le vennero
dall'Oriente (dal quale essa stessa proveniva e che aveva
sorpassato), e quelli
particolarmente pericolosi perché recavano impressi molti tratti della sua
stessa
fisionomia come gli gnostici e i
manichei, e provvedendo a costruire su nuove spirituali fondazioni
il cadente e caduto impero di
Roma, e di esso, come di tutta l'antica cultura, accogliendo e serbando
la tradizione. Ed ebbe una lunga
età di gloria che fu chiamata il medio evo (partizione storica e
denominazione in apparenza nata
come per caso, ma in effetti guidata da sicuro intuito del vero),
nella quale non solo portò a
termine il cristianizzamento e romanizzamento e incivilimento dei
germani e di altri barbari, non
solo impedì le rinnovate insidie e i certi danni di nuove-vecchie
eresie, dualistiche,
pessimistiche ed ascetiche, acosmiche e negatrici della vita, non solo animò
alla
difesa contro l'Islam, minaccioso
alla civiltà europea, ma tenne le parti dell'esigenza morale e
religiosa che sovrasta a quella
unilateralmente politica e a sé la piega, e, in quanto tale, a giusto
titolo essa affermò il suo
diritto di dominio sul mondo intero, quali che nel fatto fossero sovente le
perversioni o le inversioni di
questo diritto.
Neppure sono valide le altre
comuni accuse alla chiesa cristiana cattolica per la corruttela
che dentro di sé lasciò penetrare
e spesso in modo assai grave allargare; perché ogni istituto reca in
sé il pericolo della corruttela,
delle parti che usurpano la vita di tutto, dei motivi privati e utilitari
che si sostituiscono a quelli
morali, e ogni istituto soffre nel fatto queste vicende e di continuo si
sforza di sorpassarle e di
restituire le condizioni di sanità. Ciò accadde altresì, se pure in modo
meno scandaloso o più meschino,
nelle chiese che contro la loro primogenita cattolica, gridandone
la corruttela, si levarono, nelle
varie confessioni evangeliche e protestanti. La chiesa cristiana
cattolica, com'è noto, anche nel
corso del medio evo, giovandosi degli spiriti cristiani che spontanei
rifiammeggiavano dentro o fuori
dei suoi quadri, e contemperandoli al suo fine, si rinsanguò e si
riformò tacitamente più volte; e
quando, più tardi, tra per la corruttela dei suoi papi, del suo clero e
dei suoi frati e per la cangiata
condizione politica generale, che le aveva tolto il dominio da lei
esercitato nel medio evo e
spuntato le sue armi spirituali, e, infine, per il nuovo pensiero critico,
filosofico e scientifico, che
rendeva antiquata la sua scolastica, stette a rischio di perdersi, si riformò
ancora una volta con prudenza e
con politica, salvando di sé quanto prudenza e politica possono
salvare, e continuando nell'opera
sua, che riportò i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del
Nuovo mondo. Un istituto non
muore per i suoi errori accidentali e superficiali, ma solo quando non
soddisfa più alcun bisogno, o a
misura che scema la quantità e si abbassa la qualità dei bisogni che
esso soddisfa. E quali siano in
questo riguardo le presenti condizioni della chiesa cattolica, è
domanda estranea al discorso che
qui conduciamo.
Ripigliando questo discorso al
punto dal quale ci siamo discostati per fornire gli anzidetti
schiarimenti sulla verità che è
propria del cristianesimo e sul suo rapporto con la chiesa o con le
chiese, e riconosciuta la
necessità che il processo formativo e progressivo del pensiero cristiano
dovesse provvisoriamente
concludersi (come si fa, in fondo, sia lecito tradurre per chiarezza il
grande nel piccolo, quando,
scritto che si sia un libro, lo si manda allo stampatore e al pubblico,
resistendo alla follia dell'infinitum
perfectionis), resta, d'altra parte, che il processo doveva essere
riaperto, riveduto e portato più
oltre e più in alto. Ciò che noi abbiamo pensato, non per questo è
mai terminato di pensare: il
fatto non è mai arido fatto, colpito di sterilità, ma è sempre in
gestazione, è sempre, per
adoperare un motto del Leibniz, gros de l'avenir. Quei geni della
profonda
azione, Gesù, Paolo, l'autore del
quarto evangelio, e gli altri che con essi variamente cooperarono
nella prima età cristiana,
sembravano col loro stesso esempio, poiché fervido e senza posa era stato
il loro travaglio di pensiero e
di vita, chiedere che l'insegnamento da loro fornito fosse non solo una
fonte di acqua zampillante da
attingervi in eterno, o simile alla vite i cui palmiti portano frutti, ma
incessante opera, viva e
plastica, a dominare il corso della storia e a soddisfare le nuove esigenze e
le nuove domande che essi non
sentirono e non si proposero e che si sarebbero generate di poi dal
seno della realtà. E poiché
questa prosecuzione, che è insieme trasformazione e accrescimento, non
si può mai eseguire, senza meglio
determinare, correggere e modificare i primi concetti e
aggiungerne di nuovi e compiere
nuove sistemazioni, e perciò non può essere né ripetizione né
impossibile commento letterale e,
insomma, lavoro banausico (come, in generale, salvo sparsi
conati e rare scintille, nell'età
medioevale), ma lavoro geniale e congeniale, continuatori effettivi
dell'opera religiosa del
cristianesimo sono da tenere quelli che partendo dai suoi concetti e
integrandoli con la critica e con
l'ulteriore indagine, produssero sostanziali avanzamenti nel
pensiero e nella vita. Furono
dunque, nonostante talune parvenze anticristiane, gli uomini
dell'umanesimo e del
Rinascimento, che intesero la virtù della poesia e dell'arte e della politica e
della vita mondana,
rivendicandone la piena umanità contro il soprannaturalismo e l'ascetismo
medievali, e, per certi aspetti,
in quanto ampliarono a significato universale le dottrine di Paolo,
slegandole dai particolari
riferimenti, dalle speranze e dalle aspettazioni del tempo di lui, gli uomini
della Riforma; furono i severi
fondatori della scienza fisico-matematica della natura, coi ritrovati
che suscitarono di mezzi nuovi
alla umana civiltà; gli assertori della religione naturale e del diritto
naturale e della tolleranza,
prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gl'illuministi della ragione
trionfante, che riformarono la
vita sociale e politica, sgombrando quanto restava del medievale
feudalismo e dei medievali
privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e di
pregiudizi, e accendendo un nuovo
ardo e un nuovo entusiasmo pel bene e pel vero e un rinnovato
spirito cristiano e umanitario;
e, dietro ad essi, i pratici rivoluzionari che dalla Francia estesero la
loro efficacia nell'Europa tutta;
e poi i filosofi, che procurarono di dar forma cristiana e speculativa
all'idea dello Spirito, dal
cristianesimo sostituita all'antico oggettivismo, Vico e Kant e Fichte e
Hegel, i quali, per diretto o per
indiretto, inaugurarono la concezione della realtà come storia,
concorrendo a superare il
radicalismo degli enciclopedisti con l'idea dello svolgimento e l'astratto
libertarismo dei giacobini con
l'istituzionale liberalismo, e il loro astratto cosmopolitismo col
rispettare e promuovere
l'indipendenza e la libertà di tutte le varie e individuate civiltà dei popoli
o,
come furono chiamati, delle
nazionalità: – questi, e tutti gli altri come essi, che la chiesa di Roma,
sollecita (come non poteva non
essere) di proteggere il suo istituto e l'assetto che aveva dato ai suoi
dommi nel concilio di Trento,
doveva di conseguenza sconoscere e perseguitare e, in ultimo,
condannare con tutta quanta l'età
moderna in un suo sillabo, senza per altro essere in grado di
contrapporre alla scienza, alla
cultura e alla civiltà moderna del laicato un'altra e sua propria e
vigorosa scienza, cultura e
civiltà. E doveva e deve respingere con orrore, come blasfemia, il nome
che a quelli bene spetta di
cristiani, di operai nella vigna del Signore, che hanno fatto fruttificare
con le loro fatiche, coi loro
sacrifici e col loro sangue la verità da Gesù primamente annunciata e dai
primi pensatori cristiani bensì
elaborata, ma non diversamente da ogni altra opera di pensiero, che è
sempre un abbozzo a cui in
perpetuo sono da aggiungere nuovi tocchi e nuove linee. Né può a niun
patto piegarsi al concetto che vi
siano cristiani fuori di ogni chiesa, non meno genuini di quelli che
vi son dentro, e tanto più
intensamente cristiani perché liberi. Ma noi, – che scriviamo né per
gradire né per sgradire , agli
uomini delle chiese e che comprendiamo, con l'ossequio dovuto alla
verità, la logica della loro
posizione intellettuale e morale e la legge del loro comportamento –,
dobbiamo confermare l'uso di quel
nome che la storia ci dimostra legittimo e necessario.
Una ben significante riprova
porge di questa storica interpretazione il fatto che la continua e
violenta polemica
antichiesastica, che percorre i secoli dell'età moderna, si è sempre arrestata
e ha
taciuto riverente al ricordo
della persona di Gesù, sentendo che l'offesa a lui sarebbe stata offesa a
se medesima, alle ragioni del suo
ideale, al cuore del suo cuore. Perfino qualche poeta, il quale, per
la licenza che ai poeti si
concede di atteggiare fantasticamente in simboli e metafore gli ideali e i
controideali a seconda dei moti
della loro passione, travide di Gesù – in Gesù che amò e volle la
letizia – un negatore della gioia
e un diffonditore di tristezza, finì col dare la palinodia del suo
primo detto, come accadde al
tedesco Goethe e all'italiano Carducci. Impressioni e fantasie di poeti
furono altresì le nostalgie per
il sereno paganesimo antico, di solito contraddette con le opposte
impressioni e fantasie da quelli
stessi che le avevano per poco intrattenute3. La spensierata gaiezza e
la celia, che pareva innocente
dovunque si rivolgesse e si versasse, su qualsiasi fatto o personaggio
glorioso della storia e della
poesia, non è sembrata innocente e non è stata mai permessa intorno alla
figura di Gesù, che anche si è
ripugnato costantemente a portare sulle scene dei teatri, salvoché
nella ingenuità delle medievali
sacre rappresentazioni e delle loro sopravvivenze popolari, alle quali
la Chiesa stessa è stata
indulgente o che essa stessa ha promosse. E un'altra riprova è forse da
vedere negli atteggiamenti e
nelle simbologie di colorito cristiano, di cui si sono di frequente
rivestiti i moti politici e
sociali dell'età moderna, anche quelli di carattere più spiccatamente
antichiesastico, sicché si è
potuto parlare della «città celeste», che i razionalisti settecenteschi, i
volterriani, avevano edificata,
del «giardino dell'Eden», da loro trasferito all'antica Roma o alla
felicità arcadica della «Ragione»
e della «Natura», che tenevano in loro il posto della Bibbia e della
Chiesa, e simili; e le
rivoluzioni dei tempi moderni si richiamano ai loro «rivelatori», inviano i
loro
« apostoli» e glorificano i loro
«martiri»4.
Gli è che, sebbene tutta la
storia passata confluisca in noi e della storia tutta noi siamo figli,
l'etica e la religione antiche
furono superale c risolute nell'idea cristiana della coscienza e
dell'ispirazione morale, e della
nuova idea del Dio nel quale siamo, viviamo e ci moviamo, e che
non può essere né Zeus né Jahvè,
e neppure (nonostante le adulazioni di cui ai nostri giorni si è
voluto farlo oggetto) il Wodan
germanico; e perciò specificamente, noi, nella vita morale e nel
pensiero, ci sentiamo
direttamente figli del cristianesimo. Nessuno può sapere se un'altra
rivelazione e religione, pari o
maggiore di questa che lo Hegel definiva la «religione assoluta»,
accadrà nell'uman genere, in un
avvenire di cui non si vede ora il più piccolo barlume; ma ben si
vede che, nel nostro presente,
punto non siamo fuori dai termini posti dal cristianesimo, e che noi,
come i primi cristiani, ci
travagliamo pur sempre nel comporre i sempre rinascenti ed aspri e feroci
contrasti tra immanenza e
trascendenza, tra la morale della coscienza e quella del comando e delle
leggi, tra l'eticità e l'utilità,
tra la libertà e l'autorità, tra il celeste e il terrestre che sono nell'uomo,
e
dal riuscire a comporli in questa
o quella loro forma singola sorge in noi la gioia e la tranquillità
interiore, e dalla consapevolezza
di non poterli comporre mai a pieno ed esaurire, il sentimento
virile del perpetuo combattente o
del perpetuo lavoratore, al quale, e ai figli dei suoi figli, non verrà
mai meno la materia del lavoro,
cioè della vita. E serbare e riaccendere e alimentare il sentiento
cristiano è il nostro sempre
ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra
dolore e speranza. E il Dio
cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo
Spirito, che sempre ci supera e
sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è
perché sappiamo che sempre esso
sarà mistero all'occhio della logica astratta e intellettualistica,
immeritatamente creduta e
dignificata come «logica umana», ma che limpida verità esso è
all'occhio della logica concreta,
che potrà ben dirsi «divina», intendendola nel senso cristiano come
quella alla quale l'uomo di
continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa
veramente uomo.
BENEDETTO CROCE
Nessun commento:
Posta un commento