III DOMENICA QUARESIMA
“Tagliate gli alberi alti”, fu la parola
d’ordine lanciata da Radio Mille Colline, con cui iniziò il massacro dei Tutsi
da parte degli Hutu in Ruanda. Centinaia di migliaia di donne uomini e bambini
furono barbaramente uccisi. Anche un nostro frate, George, fu fatto scender
dall’auto a un posto di blocco e ucciso a colpi di machete.
Noi inorridiamo di fronte a queste vicende
e le chiamiamo barbarie: giustamente.
Eppure nel nostro cuore cova spesso lo
stesso fuoco. Ascoltando il brano evangelico ci viene subito da pensare che sia
Dio colui che vuole l’eliminazione del fico infruttuoso, invece è l’essere
umano che dice: taglialo! Quando abbiamo davanti agli occhi un fico che ci
sembra senza frutti – sia una persona vicina o lontana; parente o collega;
conosciuta o sconosciuta – molto spesso la reazione è di eliminarla, anche
fisicamente, se è il caso.
Prima tagliamo, se poi ci accorgeremo di
avere fatto un errore, chiederemo scusa, ma intanto ….
Lo so che ci viene spontaneo reagire così,
ma questo dice che in noi comanda ancora l’uomo vecchio, quello che ragiona in
maniera tutta umana e che non lascia spazio all’uomo nuovo, quello che fa del
pensiero di Cristo il suo criterio di scelta.
E’ Gesù Cristo che implora e dice: “ lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò
zappato attorno e avrò messo il concime” (Lc 13, 8). Per qualcuno ci sembra che sia tutto inutile,
anzi ingiusto, ma pensiamo che potremmo essere proprio noi quel fico senza
frutti e che abbiamo bisogno di tempo in più e dell’azione della grazia che ci
sostenga.
Noi che fatichiamo così tanto a produrre
frutti e siamo consapevole che, quando ne produciamo, è lo Spirito Santo che ha
lavorato tanto, dovremmo avere più compassione. San Paolo lo afferma
chiaramente: “ Per grazia di Dio sono
quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più
di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1Cor 15,10).
Anche Mosè è stato chiamato a essere guida
e aiuto di un popolo che da solo non ce la faceva. Non gente facile, anzi più
volte verrà definita “di dura cervice”,
dalla testa dura, eppure Dio “ha
osservato la miseria del … popolo … e ha udito il suo grido … (Egli
conosce) le sue sofferenze” (Es 3,7).
La
Chiesa di Cristo, Suo corpo vivente qui e oggi, nella molteplicità dei suoi
ministeri, è chiamata a essere quella voce che dice: “Non tagliarlo!”, lascia che zappi e concimi. La Chiesa è una madre
e come tale conosce benissimo i suoi figli. Essa sa che anche quando
l’apparenza mostra che la pianta è malata e senza frutti, in realtà sotto c’è
una creatura sana, magari soffocata da strati di male, ma che bisogna provare a
fare emergere. Dio ha creato ogni esser umano buono, anche se nella libertà
deformata può ridursi quasi ad animale.
La Chiesa è un luogo di cura, non di
punizione e, anche quando deve “punire”, lo fa per curare. Certo “sul momento ogni correzione non sembra causa
di gioia, ma di tristezza; dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia
a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (Eb 12,11).
Noi non siamo figli di Cronos il padre
degli dèi greci, che divorava i suoi figli per evitare che essi lo facessero
fuori, ma di Dio Padre che ha scelto, in Cristo, di farsi mangiare – ben tre
volte Luca sottolinea che il bambino Gesù è stato posto in una mangiatoia e
Gesù stesso dirà: “Chi mangia la mia
carne e bene il mio sangue …” -.
Donaci Signore la tua compassione per ogni
fico senza frutto, a partire da noi stessi, visto che a volte ci disprezziamo e
ci buttiamo via, senza riconoscere che per te siamo preziosi. Donaci il tuo
sguardo che sa riconoscere le potenzialità di bello e di bene che stanno nella
terra buona di ogni tua creatura e aiutaci a ad aiutare a farle germogliare.
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