1. Un calzolaio viveva con la moglie e i figlioli
nella casa di un contadino.
Non aveva una casa di sua proprietà, non aveva
terra, e nutriva la famiglia facendo il calzolaio. Il pane era caro e il
lavoro mal pagato quello che guadagnava se ne andava per mangiare. Il
calzolaio e la moglie avevano una pelliccia in due e per di più logora a
brandelli; era più di un anno che il calzolaio desiderava comperare delle pelli
di pecora per una pelliccia nuova. Nell’autunno il calzolaio ebbe i soldi
necessari: tre rubli in banconota nello scrigno della moglie altri cinque
rubli e venti copechi doveva riceverli dai contadini del villaggio. Una mattina
il calzolaio partì per il villaggio per comperare la pelliccia. Sopra la
camicia indossò la giubba di nanchino imbottita della moglie poi il caffettano
di panno mise in tasca la banconota da tre rubli staccò un ramo per
bastone e dopo la colazione si avviò. Pensava: “Riceverò cinque rubli dai
contadini, vi aggiungerò i miei tre e comprerò le pelli di pecora per la pelliccia”.
Il calzolaio giunse al villaggio andò da un contadino non era in casa; la
moglie promise che in settimana avrebbe mandato il marito a pagare ma di soldi
non gliene diede; andò da un altro e quel contadino giurò che non aveva
denaro, gli diede solo venti copechi per la riparazione degli stivali. Il
calzolaio pensò di farsi dare le pelli a credito, ma a credito il pellicciaio
non gliele diede.
- Porta – disse – i soldini e poi scegli quelle che
vuoi se no so ben io a chi dar credito.
E così il calzolaio non aveva combinato niente
se non ricevere venti copechi per una riparazione e prendere da un contadino
dei vecchi valenti da rivestire in pelle. Il calzolaio si fece triste, si bevve
tutti e venti i copechi in vodka e si avviò verso casa senza pelliccia. La
mattina il calzolaio aveva sentito il gelo, ma dopo aver bevuto stava caldo
anche senza pelliccia. Ecco il calzolaio che cammina sulla strada; con una mano
batte il bastone sui giunchi gelati, con l’altra mano fa dondolare gli stivali
di feltro e parla tra sé e sé.
- Io sto caldo – dice – anche senza pelliccia. Ho
bevuto una bottiglietta di vodka e mi ribolle in tutte le vene. Anche il
tulup sarebbe di troppo. Cammino, e ho dimenticato il mio dolore. Son fatto
così! Che m’importa? Posso vivere anche senza pelliccia. Posso stare anche un
secolo senza averne bisogno. L’unica cosa è che la mia donna si rattristerà. In
effetti non è giusto: lavori per uno, e quello ti prende in giro. Ma aspetta:
tu non mi porti i soldini, io te ne do tante da farti cadere il berretto,
quant’è vero Iddio, se te ne do. Che modi sono? Venti copechi mi dà! Cosa ci
fai con venti copechi? L’unica è bere. Dice: la povertà. Tu sei povero, ma
forse che io non lo sono? Tu hai la casa, le bestie e tutto, ma quello che ho
io è tutto qui; tu hai il tuo pane, mentre io lo compero; prendilo dove vuoi,
ma tre rubli alla settimana vanno solo per il pane. Arrivo a casa, il pane è
finito; tira fuori un altro rublo e mezzo. Quindi tu devi darmi ciò che mi
spetta.
Così il calzolaio arrivò a una cappella all’angolo
con una stradina, e vide che c’era qualcosa di bianco dietro la cappella. Era
già il crepuscolo. Il calzolaio guardò bene ma non riusciva a vedere che cosa
fosse. “Una pietra – pensava – qui non c’è mai stata. Un animale? Non sembra un
animale. Dalla testa parrebbe un uomo, ma chissà perché è tutto bianco. E poi
cosa ci farebbe un uomo qui?” Andò più vicino e potè vedere bene. Un miracolo:
era proprio un uomo, chissà se vivo o morto, seduto lì tutto nudo, appoggiato
alla cappella, senza muoversi. Il calzolaio si spaventò, pensava: “Qualcuno ha
ucciso un uomo, l’ha spogliato e l’ha gettato qui. Se solo ti avvicini, poi non
te la cavi più.” E il calzolaio tirò dritto. Passò accanto alla cappella,
l’uomo non si vedeva più. Superò la cappella, si voltò e vide che l’uomo si era
staccato dalla cappella, si muoveva, sembrava guardarsi attorno. Il calzolaio
si allarmò ancora di più e pensava: “Mi avvicino o tiro dritto? Se mi avvici no
posso finire male: chi lo sa che tipo è? Non è capitato qui per le sue
buone azioni. Magari mi avvicino, lui salta su e mi strozza, e non riesco a
scappare. E se non mi strozza, come me la cavo con lui? Cosa gli posso fare,
nudo com’è? Non mi toglierò i panni di dosso per dargli l’ultima cosa che mi è
rimasta. Che Dio mi scampi!”
E il calzolaio allungò il passo. Stava già per
superare la cappella quando gli venne un rimorso di coscienza. II calzolaio si
fermò in mezzo alla strada. – Ma cosa fai – diceva tra sé e sé – Semen? Un
disgraziato sta morendo e tu ti spaventi e passi oltre. Sei forse diventato
ricco sfondato? Hai paura che ti portino via le ric chezze? Ahi, Semja, così
non va! Semen voltò i tacchi e andò verso quell’uomo.
2. Semen si avvicinò all’uomo, lo guardò e vide che
era giovane, forte, non aveva lividi sul corpo, però si vedeva che era
intirizzito e spaventato; stava appoggiato lì senza guardare Semen, come se
avesse perso le forze e non riu scisse a sollevare lo sguardo. Semen gli andò
ben vicino e all’improvviso l’uomo parve tornare in sé, voltò la testa, aprì
gli occhi e guardò Semen. E per questo sguardo Semen si affezionò a quell’uomo.
Buttò a terra i valenki, si tolse la cintura, la mise sopra i valenki, si tolse
il caffettano.
- Cosa vuoi pensare, basta! – disse. – Vestiti, su!
Dai!
Semen prese l’uomo sotto il gomito e fece per
sollevar lo. L’uomo si alzò in piedi. E Semen vide: un corpo esile, pulito, le
braccia, le gambe non erano rotte e il volto era dolce. Semen gli gettò il
caffettano sulle spalle; le maniche non riusciva a infilargliele. Semen gli
sistemò le braccia, aggiustò, chiuse il caffettano e lo strinse con la cintura.
Semen fece per togliersi il logoro berretto e darlo all’uo mo nudo, ma sentì
freddo alla testa e pensò: “Io ho la testa tutta calva mentre lui ha i capelli
lunghi e ricciuti.” Si rimise il berretto. “Piuttosto, gli metterò gli stivali
ai piedi.” Lo fece sedere e gli fece calzare gli stivali di feltro. Mentre il
calzolaio lo sistemava, diceva:
- Ecco, fratello. Su, scaldati e sgranchisciti. E
questa storia non dobbiamo scioglierla noi. Riesci a camminare?
L’uomo stava fermo lì, guardava teneramente Semen ma
non riusciva a dire nulla. – Perché non parli? Non vorrai stare qui tutto
l’inverno? Bisogna andare a casa. Su, prendi il mio bastone, appoggiati, se sei
debole. Muoviti!
E l’uomo si mosse. Camminava con facilità, non
restava indietro. Mentre camminavano lungo la strada disse Semen:
- Tu chi saresti?
- Non sono di qui.
- Quelli di qui li conosco. E allora come sei
capitato sotto la cappella?
- Non posso dirlo.
- Qualcuno ti ha fatto del male, probabilmente.
- Nessuno mi ha fatto del male. E Dio che mi ha
punito.
- Si capisce, è sempre Dio, ma da qualche parte
bisogna fermarsi. Tu dove sei diretto?
- Per me è tutto uguale. Semen si stupì. Non pareva
un burlone e parlava dolcemente, ma di sé non raccontava niente.
E Semen pensò: “Ne succedono di cose”, e disse
all’uomo:
- E allora vieni a casa mia, almeno ti riprenderai
un pochettino. Semen andava avanti e il viaggiatore non restava indietro, gli
camminava accanto. Si levò il vento, si infilava sotto la camicia di Semen,
cominciò a passargli la sbronza e gli venne freddo. Andava avanti sbuffando col
naso, si stringeva la giacchetta della moglie e pensava: “Altro che la
pelliccia! Sono andato per comperare la pelliccia e torno senza caffetta no, e
per di più mi tiro dietro un uomo nudo. Non sarà tanto contenta Matrena!” E
pensando a Matrena, Semen si rattristava. Ma appena guardava il forestiero gli
veniva in mente come l’aveva visto dietro la cappella e gli si allargava il cuore.
3. Di buon mattino la moglie di Semen rassettò la
casa. Spaccò la legna, portò l’acqua, diede la colazione ai bambini, mangiò
anche lei e si mise a pensare; si domandava quando fare il pane, se quel giorno
o l’indomani. Ce n’era ancora un bel pezzo. “Se Semen pranza là – pensava – e a
cena non mangia tanto, il pane basta anche per domani.” Matrena girò e rigirò
il pane e pensò: “Oggi il pane non lo faccio. Tra l’altro la farina basta solo
per una pagnotta. Aspetterò fino a venerdì.” Matrena mise via il pane e si mise
al tavolo per fare un rappezzo a una camicia del marito. Mentre cuciva Matrena
pensava al marito che stava comperando le pelli per la pelliccia. “Non vorrei
che il pellicciaio lo ingannasse. Perché mio marito è molto ingenuo. Lui non
ingannerebbe nessuno, ma anche un bambino può abbindolarlo. Otto rubli non è
una somma piccola. Si può fare una bella pelliccia. Magari poco conciata, ma
sempre una pelliccia. L’inverno scorso che fati ca senza pelliccia! Non si
poteva andare al fiume, da nessu na parte. Come adesso, è andato fuori casa, si
è messo tutto lui e a me non è rimasto niente. Non è partito tardi. Sarebbe ora
di tornare. Non sarà andato a far baldoria il mio galletto?” Come Matrena pensò
questo, scricchiolarono i gradini del terrazzino d’ingresso ed entrò qualcuno.
Matrena appuntò l’ago ed andò nell’ingresso. Vide che erano entrati in due:
Semen e un certo muzik senza berretto e con i valenki ai piedi. Subito Matrena
sentì la puzza di alcol del marito. “Ecco, – pensò – è stato così, ha fatto
bisboccia.” Ma come vide che era senza caffettano, con addosso solo la
giacchetta, a mani vuote, zitto zitto, e si faceva piccolo piccolo, a Matrena
si spezzò il cuore. Pensò: “Ha speso i soldi per bere, ha fatto festa con
qualche balordo e se l’è anche tirato dietro.”
Matrena li fece entrare nell’izba, entrò anche lei e
vide quell’uomo: un forestiero, giovane, magrolino, il caffettano che aveva
indosso era il loro. Non si vedeva nessuna camicia sotto il caffettano, il
berretto non l’aveva. Appena entrato si piantò lì, non si muoveva e non alzava
gli occhi. E Matrena pensava: non è a posto, è spaventato. Matrena si rabbuiò,
andò vicino alla stufa, voleva vedere cosa facevano. Semen si tolse il
berretto, si sedette sulla panca, da bravo.
- Allora, – fa – Matrena, che fai, non servi la
cena?
Matrena brontolò qualcosa tra sé e sé. Si era messa
vicino alla stufa e non si muoveva: guardava ora l’uno, ora l’altro e scuoteva
la testa. Semen vedeva che la donna non era come al solito, ma c’era poco da
fare: finse di non notarlo e prese per mano il forestiero.
- Siediti, – gli disse – fratello, ora ceniamo. Il
forestiero si sedette sulla panca.
- Cosa c’è, non hai preparato? Matrena si arrabbiò.
- Ho preparato, ma non per te. Tu, a quanto vedo,
anche il cervello ti sei bevuto. Sei andato a comperare la pelliccia e torni
senza nemmeno il caffettano, e per di più ti porti a casa un vagabondo nudo.
Per voi ubriaconi non c’è nessuna cena.
- Basta, Matrena. Perché agitare la lingua a
vanvera! Prima devi chiedere chi è…
- E tu dimmi dove hai messo i soldi. Semen si frugò
nel caffettano, tirò fuori la banconota e l’aprì.
- I soldi sono qui, Trifonov non ha pagato, ha
promesso per domani.
La rabbia montò ancora di più in Matrena: la
pelliccia non l’ha comprata, con l’ultimo caffettano ha coperto un uomo nudo
che chissà chi è e se l’è portato a casa. Afferrò la banconota che era sul
tavolo, andò a riporla e disse:
- Per cena non ho niente. Non si può dar da mangiare
a tutti gli ubriaconi nudi.
- Ehi, Matrena, frena la lingua. Prima ascolta cosa
ho da dire…
- Ubriaco e di mente corta, è un grullo chi
l’ascolta. Facevo bene a non voler sposare una spugna come te. La mamma mi ha
dato delle tele, tu te le sei bevute; vai a comperare la pelliccia, ti bevi
anche quella.
Semen voleva spiegare alla moglie che aveva bevuto
solo per venti copechi; voleva raccontare dove aveva trova to quell’uomo ma
Matrena non gli lasciava dire una parola: dove si attaccava, aveva la sua da
dire. Anche cose di dieci anni prima, si ricordava tutto. Parla che ti parla,
Matrena saltò addosso a Semen, lo prese per la manica.
- Dammi la mia giacchetta. Mi è rimasta solo questa,
e lui se la prende e se la ficca addosso. Dà qua, cane tignoso, che il diavolo
ti spezzi le ossa!
Semen incominciò a togliere la giacchetta
striminzita, rivoltò una manica, la donna diede uno strappo, crepitarono le
cuciture della giacchetta. Matrena afferrò la poddevka, se la calò in testa e
infilò la porta. Voleva andarsene, ma si fermò; il suo cuore era dilaniato:
voleva sfogare l’ira e vole va sapere chi fosse quell’uomo.
4. Matrena si fermò e disse:
- Se fosse una brava persona non sarebbe nudo, e
inve ce non ha nemmeno addosso la camicia. Se fosse un benintenzionato, tu me
l’avresti detto, dove sei andato a prendere questo damerino.
- Te lo dico subito: passavo vicino alla cappella e
vedo lì questo tipo, nudo, tutto intirizzito. Non è certo estate per starsene
nudi. E Dio che me l’ha fatto incontrare, se no sarebbe stato perduto. Quindi,
che fare? Son cose che pos sono capitare! Ho preso, l’ho vestito e l’ho
condotto qui. Placa il tuo cuore. È peccato, Matrena. Un giorno dobbia mo
morire.
Matrena voleva sbraitare ma guardò il forestiero e
si azzittì. Il forestiero se ne stava seduto lì impalato, senza muoversi dal
bordo della panca. Le mani sulle ginocchia, la testa abbassata sul petto, non
apriva bene gli occhi e continuava a fare smorfie come se stesse soffocando.
Matrena tacque. Parlò Semen:
- Matrena, ma non hai timor di Dio?!
Come Matrena udì tali parole, lanciò un’altra
occhiata al viaggiatore e d’un tratto il cuore le si aprì. Si allontanò dalla
porta, andò nell’angolo della stufa, prese il cibo per la cena. Mise una tazza
sulla tavola, vi versò del kvas, depose l’ultimo pezzo di pane. Diede loro un
coltello e i cucchiai. -
Beh, mangiate – disse.
Semen fece muovere il forestiero.
- Passa, – gli disse – giovanotto.
Semen tagliò il pane, lo sminuzzò e si misero a cena
re. Matrena si sedette sul bordo della stufa, appoggiò una mano e si mise a
osservare il pellegrino. E Matrena ebbe compassione del forestiero e prese a
volergli bene. E subito il forestiero si tirò su di morale, smise di fare
smorfie, sollevò gli occhi su Matrena e sorrise. Finito di cenare la donna
sparecchiò e prese a domandare al forestiero:
- Di che famiglia saresti?
- Non sono di qui.
- E come sei capitato sulla strada?
- Non posso dirlo.
- Chi ti ha derubato?
- È Dio che mi ha punito.
- Stavi lì nudo così?
- Sì, ero nudo così, avevo freddo. Semen mi vide,
ebbe pietà di me, si tolse il caffettano, lo diede a me e mi disse di venire
qui. E qui tu mi hai dato da mangiare, da bere, hai avuto compassione. Che Dio
vi salvi!
Matrena si alzò, prese dalla finestra la vecchia
camicia di Semen, quella che aveva rattoppato, e la diede al forestiero; trovò
anche delle brache e gliele diede.
- Tieni, vedo che non hai neppure la camicia.
Copriti e mettiti a dormire dove desideri, nel sopralzo o sulla stufa.
Il forestiero tolse il caffettano, indossò la
camicia e le brache e si sdraiò nel sopralzo. Matrena spense la luce, prese il
caffettano e si avvicinò al marito. Matrena si coprì con un lembo del
caffettano, era sdraia ta ma non dormiva, non le usciva di mente il forestiero.
Come le veniva in mente che le aveva mangiato l’ultimo tozzo di pane e che
l’indomani non ce ne sarebbe stato, come le veniva in mente che gli aveva
ceduto la camicia e le brache le veniva male; ma come le veniva in mente il suo
sorriso, le si rianimava il cuore. A lungo Matrena non riuscì a dormire e sentì
che anche Semen non dormiva, tirava il caffettano verso di sé.
- Semen?
- Eh?
- Avete finito il pane, io non l’ho fatto. Per
domani non so come fare. Forse chiedo alla mia comare Malan’ja.
- Se saremo vivi qualcosa mangeremo. La donna si
buttò giù, rimase zitta.
- Si vede che è una brava persona, solo che di sé
non parla.
- Si vede che non può.
- Sem!
- Eh!
- Noi diamo, ma com’è che a noi non dà niente
nessuno?
Semen non sapeva cosa rispondere. Disse:
- Basta discutere. Si girò e si addormentò.
5. Il mattino dopo, quando Semen si svegliò, i
bambini dormivano, la moglie era andata dai vicini a farsi prestare del pane.
C’era solo il forestiero del giorno prima, con la camicia e le brache vecchie,
era seduto sulla panchina e guardava in su. Il volto era più luminoso del
giorno prima. E disse Semen:
- Che facciamo, bella testolina? La pancia chiede
pane, il nudo chiede panni. Bisogna nutrirsi. Che lavoro sai fare?
- Io non so fare niente.
Semen se ne stupì e disse:
- Basta aver voglia, si impara qualsiasi cosa.
- Tutti lavorano, lavorerò anch’io.
- Come ti chiami?
- Mixail.
- Allora, Mixajla (vezzeggiativo di Mixail), se non
vuoi dire niente di te è affar tuo, ma senza mangiare non si può stare. Se
farai i lavori che ti assegnerò, io ti darò da mangiare.
- Che Dio ti salvi! Ed io imparerò. Fammi vedere
cosa devo fare.
Semen prese il filo, lo mise sul dito e fece il
nodo.
- Non è difficile, guarda…
Mixajla guardò, mise il filo sul dito allo stesso
modo, capì subito e fece il nodo. Semen gli fece vedere come attaccare. Anche
questo Mixajla lo capì all’istante. Il padrone gli mostrò anche come inserire
il pelo e come cucire, e ancora Mixajla capì immediatamente Qualsiasi
lavoro Semen gli mostrasse, capiva subito tutto, e al terzo giorno lavorava
come se fosse stato un seco lo che cuciva. Lavorava senza raddrizzare mai la
schiena, mangiava poco; nelle pause del lavoro stava zitto e guarda va sempre
in alto. Fuori casa non andava, non diceva una parola di troppo, non scherzava,
non rideva. L’avevano visto sorridere solo una volta, la prima sera, quando la
donna gli aveva dato la cena.
6. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, si
compì il giro di un anno. Mixajla viveva sempre presso Semen, lavorava. E si
diffuse la fama del lavorante di Semen: nessuno cuciva stivali così forti e
così precisi come Mixajla, da tutto il circondario andavano da Semen a farsi
cucire gli stivali e cominciarono ad aumentare gli introiti di Semen.
Una volta, d’inverno, Semen era lì che lavorava con
Mixajla, quando giunse all’izba una piccola carrozza tirata da tre cavalli coi
campanellini. Essi guardarono dalla fine stra: la carrozza si fermò di fronte
all’izba, dalla serpa saltò giù un giovanotto ed aprì lo sportellino. Dalla
carrozza uscì un signore impellicciato. Scese dalla carrozza, andò verso la
casa di Semen, salì sul terrazzino d’ingresso. Accorse Matrena, spalancò la
porta. Il ricco signore si chinò, entrò nell’izba, si raddrizzò, la testa gli
arrivava quasi al soffitto, riempiva tutto quell’angolo. Semen si alzò in
piedi, fece un inchino e prese ad ammirare quel signore. Non aveva mai visto
gente simile. Semen stesso aveva i fianchi incavati, Mixajla era smilzo, Matrena
poi assomigliava a uno stecco secco, mentre quest’uomo pareva provenire da un
altro mondo: la faccia rossa, turgida, il collo taurino, sembrava fatto tutto
con una fusione in ghisa. Il ricco signore tirò il fiato, si tolse la
pelliccia, si sedette sulla panca e disse:
- Chi è il mastro calzolaio?
Arrivò Semen, che disse:
- Sono io, messere.
Il ricco signore diede una voce al suo servitore:
- Ehi, Fed’ka, porta qui la merce.
Accorse il servitore portando un involto. Il padrone
prese l’involto e lo pose sul tavolo.
- Aprilo, – disse.
Il servitore sciolse la corda. Il ricco signore
schiacciò la punta del dito sul materiale di calzoleria e disse a Semen:
- Ecco, ascoltami, calzolaio. Lo vedi il materiale?
- Sì, – disse – vostra eccellenza.
- E lo capisci che merce è?
Semen tastò il cuoio, disse:
- E un buon cuoio.
- Altro che buono! Tu, babbeo, un cuoio così non
l’hai mai visto. È cuoio tedesco, venti rubli l’ho pagato. Semen era
intimidito. Disse:
- E dove avrei potuto vederlo?
- Ecco, appunto. Sei in grado con questo cuoio di
cucire un paio di stivali della mia misura?
- Sì che sono in grado, messere. Il ricco signore
alzò la voce:
- Sono in grado, sono in grado. Devi capire per chi
cuci e con che materiale. Devi cucirmi stivali tali che stiano un anno senza stonarsi,
senza scucirsi. Se sei in grado fallo, taglia il cuoio, se non sei in grado non
metterti neanche e non tagliare il cuoio. Te lo dico da prima: se gli stivali
si scuciono o si storcono prima che sia trascorso un anno ti faccio finire in
carcere; se per un anno non si stonano e non si scuciono, ti pago dieci rubli
per il tuo lavoro.
Semen era spaventato e non sapeva cosa dire. Cercò
lo sguardo di Mixajla. Gli diede una gomitata e bisbigliò:
- Fratello, che facciamo?
Mixajla fece un cenno con la testa, come per dire:
“Prendi pure il lavoro”. Semen diede retta a Mixajla e si impegnò a cucire
stivali tali che non si stonassero e non si scucissero per un anno almeno. Il
signore diede una voce al servitore, gli ordinò di cavar gli lo stivale
sinistro, poi estese la gamba.
- Prendi la misura!
Semen imbastì un pezzo di carta di dieci versok , lo
stirò, si mise in ginocchio, pulì ben bene la mano contro il grem biule per non
macchiare la calza del signore e cominciò a prendere le misure. Semen misurò la
pianta, misurò il collo del piede; fece per misurare il polpaccio, ma la carta
non arrivava. Nel polpaccio, quel gambone era come una grossa trave.
- Attento che non stringa sugli stinchi.
Semen preparò un altro pezzo di carta. Il ricco
signore stava lì seduto, muoveva le dita nella calza, osservava chi c’era
nell’izba. Vide Mixajla.
- Chi è questo che hai qui? – chiese.
- È il mio mastro artigiano, sarà lui a cucire.
- Stai attento, – disse il signore rivolto a Mixajla
– ricordati di cucirli in modo che durino almeno un anno.
Anche Semen guardò Mixajla, e vide che Mixajla non
guardava neanche il ricco signore, fissava un angolo dietro quell’uomo, come se
vedesse qualcuno. Mixajla continua va a guardare, e ad un tratto sorrise e si
illuminò tutto.
- Cos’hai, stupido, da digrignare i denti? Bada
piuttosto a che siano pronti in tempo.
E Mixajla disse:
- Saranno pronti proprio al momento giusto.
- Ecco, bene. Il ricco signore indossò lo stivale,
la pelliccia, si abbottonò e si diresse verso la porta. Ma dimenticò di
abbassare la testa, battè la testa contro la trave. Il signore imprecò, si
sfregò la testa, montò in carrozza e partì. Partito il ricco signore, disse
Semen:
- È duro come una pietra. A pestarlo con il
mazzuolo gli fai il solletico. Ha sfondato lo stipite con la testa e non gli ha
fatto né caldo né freddo.
E Matrena disse:
- Anche con la vita uno così non la passa liscia. Un
osso duro come lui non lo vuole neppure la morte.
7. E disse Semen a Mixajla:
- Per prenderlo, il lavoro l’abbiamo preso, ma dobbiamo
stare attenti a non metterci nei guai. Il materiale è caro e quel signore è
irascibile. Non dobbiamo fare errori. Dai, tu che hai la vista più acuta e con
le mani sei diventato più abile di me, prendi la misura. Taglia il cuoio e io
cucirò la tomaia.
Mixajla ubbidì: prese il cuoio del ricco signore, lo
dispiegò sul tavolo, lo piegò in due, prese il coltello e inco minciò a
tagliare. Arrivò Matrena, guardò Mixajla mentre tagliava e si stupì di quello
che faceva. Matrena conosceva ormai bene l’arte della calzatura e vedeva che
Mixajla non tagliava il cuoio per fare stivali normali, lo tagliava per stivali
senza suola. Matrena voleva dirglielo, ma pensò: “Si vede che non ho capito che
stivali vuole quel signore; probabilmente Mixajla sa il fatto suo, non voglio
intromettermi. Mixajla tagliò il cuoio per un paio di stivali, prese il lembo e
si mise a cucirlo non come per gli stivali comuni, con due bordi, ma con un
bordo solo, come bosoviki. Anche di questo si stupì Matrena, ma ancora una
volta non volle intromettersi. Intanto Mixajla continuava a cucire. Si misero a
desinare, Semen si alzò e vide che con il cuoio del ricco signore erano stati
cuciti dei bosoviki. Semen sospirò. “Ma come, – pensava – Mixajla è vissuto qui
un anno intero e non ha mai sbagliato nulla, ed ora ha fatto questo gran
pasticcio! Quel signore ha ordinato stivali robusti col guardolo e lui fa dei
bosoviki senza suola, ha sciupato il materiale. Come farò adesso con il
cliente? Un cuoio così dove lo trovo?” E disse a Mixajla:
- Cos’hai combinato, – gli disse – bella testolina?
Mi hai rovinato! Quel signore ha ordinato stivali e tu cosa hai cucito? Aveva
appena iniziato a sgridare Mixajla quando batterono all’anello della porta,
qualcuno bussava. Si affacciò alla fine stra: era arrivata una persona a
cavallo, stava legando la bestia. Gli aprirono: entrò proprio il servitore di
quel ricco signore.
- Salute!
- Salute! Cosa desideri?
- La padrona mi ha mandato per gli stivali.
- Cosa c’è riguardo agli stivali?
- Ecco cosa c’è. Gli stivali non servono al padrone.
Il padrone è all’altro mondo.
- Ma che dici?
- Dopo essere stato da voi non arrivò neanche fino a
casa, morì in carrozza. La carrozza si fermò vicino alla casa, accorsero per
farlo scendere, e lui si era afflosciato come un sacco, era già rigido, era
morto, a fatica lo tirarono fuori. Così la signora mi ha mandato qui dicendo:
“Di’ al calzolaio: è stato da voi un signore, ha ordinato un paio di stivali e
ha lasciato del cuoio; digli così: gli stivali non servono più, ma cucia in
fretta con quel cuoio dei bosoviki per il morto. Aspetta che siano pronti e
portameli.” Ed eccomi qua. Mixajla raccolse dal tavolo gli avanzi di cuoio, li
arrotolò, prese i bosoviki, che erano pronti, li scosse l’uno con tro l’altro,
li strofinò con il grembiule e li diede al giova notto. Il ragazzo prese i
bosoviki.
- Addio, signori! Alla buon’ora!
8. Passò un altro anno, ne passarono due, ormai era
il sesto anno che Mixajla viveva da Semen. Viveva sempre allo stesso modo. Non
andava da nessuna parte, non diceva una parola di troppo e in tutto questo
tempo aveva sorriso solo due volte: una volta, quando la donna gli aveva
servito la cena, e la seconda volta con il ricco signore. La gioia di Semen per
il suo lavorante non aveva limiti. Non gli chiedeva più da dove venisse; temeva
solo una cosa: che Mixajla lo lasciasse.
Una volta erano in casa. La padrona di casa stava
mettendo le pentole di ghisa nella stufa, i ragazzi correvano sulle panche e
guardavano fuori della finestra. Semen cuciva vicino a una finestra, Mixajla
attaccava un tacco accanto all’altra. Un ragazzo scivolò lungo la panca fino a
Mixajla, si appoggiò alla sua spalla e guardò dalla finestra:
- Zio Mixajla, guarda, una mercantessa con delle
bambine, sembra che stia venendo da noi. E una delle bambine è zoppa.
Appena il ragazzo ebbe detto questo, Mixajla lasciò
il suo lavoro, andò alla finestra e guardò fuori. E Semen si stupì. Mixajla non
aveva mai guardato fuori, e ora si attaccava alla finestra, guardava qualcosa.
Anche Semen guardò dalla finestra; vide che in effetti si stava avvicinando al
suo cortile una donna, vestita con cura, che teneva per mano due bambine
impellicciate, con scialletti fatti a telaio. Le bambine erano come due gocce
d’acqua, non si distinguevano. Però una aveva un difetto alla gamba sinistra,
zoppicava. La donna salì gli scalini del terrazzino, entrò nell’ingresso, trovò
a tastoni la porta, tirò la maniglia, l’aprì. Mandando avanti le due bambine,
entrò nell’izba.
- Salute, padroni!
- Benvenuta! Cosa desiderate?
La donna si sedette al tavolo. Le bambine si
strinsero alle sue ginocchia, avevano paura della gente.
- Far cucire delle scarpine di pelle per queste
bambine, per primavera.
- Perché no, si può fare. Non ne abbiamo mai fatte
di così piccole, ma tutto si può fare. Si possono fare con il guardolo, oppure
scamosciate, con la tela. Ecco, Mixajla è il nostro calzolaio.
Semen guardò Mixajla e vide che aveva smesso di lavo
rare e guardava fisso le bambine. E Semen si stupì di Mixajla. Pensava: è vero,
sono belle bambine: occhi neri, grassottelle, bianche e rosse, belle le
pellicce e gli scialletti, ma Semen non riusciva a capire perché Mixajla le
fissasse in quel modo, quasi le conoscesse. Semen era meravigliato. Si mise a
parlare con la donna per mettersi d’accordo. Si misero d’accordo, si preparò a
prendere le misure. La donna prese sulle ginocchia la pic cola zoppa e disse:
- A questa prendi due misure; per il piede zoppo
cucimi una scarpina, per quello sano tre. Hanno i piedi uguali, come due gocce
d’acqua. Sono gemelle.
Semen prese le misure e disse indicando la zoppetta:
- Com’è capitato? Una bambina così carina. E nata
così?
- No, la madre le ha schiacciato il piede.
Si mise in mezzo Matrena, che voleva sapere chi
fosse quella donna e di chi fossero figlie le bambine; disse:
- Perché, non sei tu la loro madre?
- Non sono né madre né parente, signora mia, sono
delle estranee, le ho adottate.
- Non sono figlie tue, ma quanto le ami!
- Come potrei non amarle, le ho nutrite tutt’e due
col mio latte. Avevo un bambino mio, ma il Signore me l’ha tolto, e a queste
voglio ancor più bene che a lui.
- Ma da dove vengono?
9. Alla donna si sciolse la lingua, si mise a
raccontare.
- Fu sei anni fa, – disse. – In una sola settimana
queste orfanelle subirono un grosso colpo: il martedì seppellirono il loro
padre, il venerdì morì la madre. Queste bambine restarono lì, mezze morte,
senza il padre per tre giorni, e la madre non gli sopravvisse neanche un
giorno. Io e mio marito a quei tempi eravamo contadini. Eravamo vicini di casa,
i cortili confinavano. Il loro padre lavorava da solo, nel bosco. Non so come,
gli cadde addosso un albero, lo colpì di traverso, gli schiacciò tutte le
viscere. Lo portarono a casa, rese l’anima a Dio, e la sua donna in quella
stessa settimana aveva partorito due gemelline, queste bimbe. Povera, sola, non
aveva nessuno, né una madre né una figlia. Partorì tutta sola, tutta sola
morì. La mattina dopo andai a trovare la vicina; entro nell’izba e lei,
poveretta, era già fredda. E nel morire si era rovesciata sulla bambina.
L’aveva schiacciata, le aveva storpiato il piede. Accorse gente: la lavarono,
la vestirono, fecero la bara, la seppellirono. Tutta brava gente. Restavano le
bambinette tutte sole. Dove si potevano mettere? Tra le donne io ero l’unica
che aveva un neonato. Il primogenito, maschio, erano sette settimane che lo
allattavo. Le portai a casa io, in via provvisoria. Gli uomini si riunirono,
pensarono e ripensarono a come sistemarle e mi dissero:
- Tu, Mar’ja, tieni in casa le bambine per un po’ e noi
ci penseremo, dacci un po’ di tempo.
- E io mi attaccai al seno subito la sana, mentre
quella schiacciata non la volevo nutrire: non mi aspettavo che riu scisse a
vivere. Poi pensai tra me e me: perché deve spegnersi quest’anima d’angioletto?
Ebbi pietà anche di lei. Le diedi il seno, e così, tra il mio e queste due, ne
allattai tre al seno! Ero giovane, piena di forza, e mangiavo bene. E di latte
in seno Dio me ne mandava tanto, un’inondazione! Mi capitava di averne due al
seno, e il terzo aspettava. Una, sazia, si staccava, prendevo l’altra. E così
volle Iddio che queste crescessero mentre il mio, dopo che ebbe compiuto
l’anno, lo portai al cimitero. Altri bambini Dio non me ne mandò. E i guadagni
cominciarono ad aumentare. Adesso viviamo qui, al mulino, presso un
mercante. Il salario è alto, si vive bene. E di figli non ne abbiamo. E come
potrei vivere tutta sola, se non ci fossero queste bimbette! Come potrei non
amarle! La mia unica gioia sono proprio loro!
La donna con un braccio stringeva a sé la zoppetta e
con l’altro si asciugava le lacrime dalle guance. Matrena sospirò e disse:
- Si vede che è vero il proverbio: senza il padre e
la madre uno può cavarsela, ma senza Dio non può cavarsela nessuno.
Parlarono un po’ tra loro, poi la donna si alzò per
andarsene; i padroni di casa l’accompagnarono alla porta, poi guardarono
Mixajla. E quello era lì con le mani sulle ginocchia, guardava in alto e
sorrideva.
10. Semen gli si avvicinò e disse: che fai, Mixajla!
Mixajla si sollevò dalla panca, posò il lavoro, si tolse il grembiule, si
inchinò al padrone e alla padrona di casa e disse:
- Perdonatemi, signori. Dio mi ha perdonato.
Perdonatemi anche voi.
E i due videro che Mixajla emanava una luce. Semen
si alzò, si inchinò davanti a Mixajla e gli disse:
- Vedo, Mixajla, che non sei un uomo comune, non ti
posso trattenere e non ti posso interrogare. Ma dimmi alme no una cosa: perché
quando ti trovai e ti introdussi in casa eri cupo, e quando mia moglie ti diede
la cena le sorridesti, e da allora ti facesti più luminoso? Poi, quando quel
ricco signore ordinò gli stivali, tu sorridesti per la seconda volta e da
allora fosti ancora più luminoso? E adesso, quando quella donna ha portato qui
le bambine, hai sorriso per la terza volta e sei diventato tutto luce. Dimmi,
Mixajla, perché emani questa luce e perché hai sorriso tre volte? Rispose
Mixajla:
- Mi sono illuminato perché ero stato punito, ma ora
Dio mi ha perdonato. E ho sorriso tre volte perché dovevo venire a conoscere
tre parole divine. E le ho conosciute; conobbi la prima parola quando tua
moglie ebbe compassione di me, perciò sorrisi per la prima volta. Conobbi la
seconda parola quando il ricco ordinò gli stivali, e sorrisi un’altra volta; e
ora, quando ho visto le bambine, ho conosciuto l’ultima parola, la terza, ed ho
sorriso per la terza volta.
E disse Semen:
- Dimmi, Mixajla, perché Dio ti ha punito e quali
sono quelle parole divine, così le saprò anch’io.
E disse Mixajla:
- Dio mi ha punito perché avevo disubbidito.
Ero un angelo del cielo e disubbidii a Dio. Ero un angelo del cielo quando Dio
mi mandò a raccogliere l’anima di una donna. Volai sulla terra e vidi una donna
sola, malata, che aveva generato due bambine, gemelle. Le bambine si agitavano
accanto alla mamma e la madre non riusciva ad attaccarle al seno. La donna mi
vide, capì che ero stato mandato da Dio a prendere la sua anima, scoppiò a
piangere e disse: “Angelo del Signore! Mio marito è stato appena portato al
cimitero, l’ha ucciso un albero del bosco. Non ho sorelle, né zie, né madre,
nessuno può allevare le mie orfanelle. Non prendere la mia anima, lascia che
sia io a dare da bere e da mangiare alle mie bambine, a farle diventare grandi!
I bambini senza padre e senza madre non sopravvivono!” E io diedi ascolto alla
madre, le appoggiai una bambina al petto, posi l’altra tra le braccia della
mamma e volai in cielo, dal Signore. Mi presentai a Dio e dissi: “Non ce l’ho
fatta a strappare l’anima a una puerpera. Il padre era stato ucciso da un
albero, la madre aveva dato alla luce due gemelle e mi pregava di non prendere
la sua anima, diceva: ‘Lascia che sia io a dare da bere e da mangiare alle mie
bambine, a farle diventare grandi! I bambini senza padre e senza madre non
sopravvivono!’ Non ho preso l’anima di quella puerpera.” E disse Dio: “Vai a
cogliere l’anima di quella puerpera e imparerai tre parole: saprai cosa c’è
nell’uomo, cosa non è dato all’uomo e di cosa vive l’uomo. Quando avrai
imparato, ritornerai in cielo.” lo tornai sulla terra e presi l’anima di quella
madre. Le neonate ricaddero dai seni. Il corpo morto si rovesciò sul letto,
schiacciò una bambina e le storse un piedino. Io mi alzai sopra il villaggio,
volevo consegnare l’anima a Dio, il vento mi sollevò, le ali si bloccarono, si
staccarono, l’anima raggiunse Dio da sé e io caddi a terra, lì accanto alla
strada.
1 1 . E Semen e Matrena compresero chi avevano
vestito e nutrito, con chi erano vissuti, e piansero di paura e di gioia. E
disse l’angelo:
- Ero rimasto solo nel campo, e nudo. Non avevo mai
conosciuto prima i bisogni della gente, non conoscevo il freddo e la fame, e
divenni uomo. Ero intirizzito, affamato e non sapevo che fare. Vidi che nel
campo c’era una cappella eretta a Dio, mi avvicinai a questa per rifugiarmi lì.
La cappella era chiusa a chiave e non si poteva entrare. Così mi sedetti dietro
la cappella, per proteggermi dal vento. Venne la sera, io morivo di fame e
avevo freddo ed ero tutto indo lenzito. D’un tratto sentii che sulla strada
passava un uomo, con in mano degli stivali, che parlava tra sé e sé. Per la
prima volta da che ero diventato un uomo vedevo il volto mortale di una persona
ed ebbi paura di questo volto, voltai la testa. E sentii che quest’uomo parlava
tra sé di come riparare il corpo dal gelo nell’inverno, di come dar da mangiare
alla moglie e ai figli. E pensai: “Io sto morendo di freddo e di fame, ed ecco
un uomo che non pensa ad altro che a coprire sé e la moglie con una pelliccia e
a procurare il pane. Non mi può aiutare.” L’uomo mi vide, si oscurò in viso,
divenne ancora più terribile e andò oltre. E io mi disperai. D’un tratto
udii che tornava indietro. Alzai lo sguardo e non riconobbi la persona di
prima: prima aveva la morte nel volto, ma ora all’improvviso si era fatto vivo
e nel suo volto riconobbi Dio. Mi si accostò, mi coprì, mi prese con sé e mi
condusse a casa sua. Giunsi nella sua casa, ci venne incontro una donna e
cominciò a parlare. La donna era ancora più terribile del marito: di bocca le
usciva un alito di morte ed io quasi soffocai per il puzzo di morto. Voleva
buttarmi fuori al gelo, ed io sapevo che sarebbe morta se mi avesse cacciato
via. Ed ecco che suo marito la fece pensare a Dio e la donna cambiò di colpo. E
quando ci servì la cena e mi guardò, io restituii il suo sguardo: non c’era più
morte in lei, era viva, e in lei riconobbi Dio. E ricordai la prima parola di
Dio: “Saprai cosa c’è nell’uomo.” Così imparai che nell’uomo c’è l’amore. E mi
rallegrai vedendo che Dio aveva già incominciato a rivelarmi ciò che aveva
promesso, e sorrisi per la prima volta. Ma non ero ancora riuscito a scoprire
tutto. Non ero riu scito a capire cosa non è dato all’uomo e di cosa vive
l’uomo. Presi a vivere in casa vostra e trascorse un anno. E venne un uomo a
ordinare stivali che durassero almeno un anno senza scucirsi e senza stonarsi. Io
lo guardai e dietro le sue spalle vidi un mio compagno, un angelo della morte.
Nessuno tranne me vedeva questo angelo ma io lo cono scevo e sapevo che prima
del calar del sole sarebbe stata carpita l’anima di quel riccone. E pensai:
“Uno fa riserve per un anno e non sa che non resterà vivo neanche fino a sera.”
E ricordai l’altra parola di Dio: “Saprai cosa non è dato all’uomo.” Cosa c’è
nell’uomo ormai lo sapevo. Scoprii allora cosa non è dato all’uomo. Non è dato
all’uomo conoscere cosa è necessario per il suo corpo. E sorrisi per la seconda
volta. Fui felice di aver visto l’angelo mio compagno e che Dio mi avesse
rivelato un’altra parola. Ma non riuscivo ancora a capire tutto. Non
riuscivo a capire di cosa vivono gli uomini.
- Così continuavo a vivere aspettando che Dio mi
rivelasse l’ultima parola. E dopo cinque anni sono arrivate le gemelline con
quella donna, ho riconosciuto le bambine e ho visto che erano rimaste vive. Le
ho riconosciute e ho pensato: “La madre mi aveva implorato per le bambine ed io
avevo creduto alla madre: pensavo che un bambino non potesse vivere senza padre
e senza madre, quando invece sono state nutrite e cresciute da un’estranea.” E
quando quella donna si è commossa per le bambine non sue ed ha pianto, ho visto
in lei il Dio vivo ed ho capito di cosa vive l’uomo. E ho visto che Dio mi
rivelava l’ultima parola, mi aveva perdonato, così ho sorriso per la terza
volta.
12. E si denudò il corpo dell’angelo, si rivestì
tutto di luce, tanto che gli occhi non resistevano alla sua vista; e la sua
voce si fece più alta, come se provenisse non da lui ma dal cielo. E disse
l’angelo:
- Ho saputo che l’uomo vive non della cura di sé, ma
di amore. Non era dato sapere alla madre cosa fosse necessario alle sue bambine
per vivere. Non era dato sapere al ricco cosa servisse a lui stesso. E non è
dato sapere a nessun uomo se per la sera gli servono stivali suolati da vivo o
stivali senza suola da morto. Ero rimasto in vita, quando ero uomo, non perché
avessi escogitato qualcosa ma perché c’era stato amore in un passante e in sua
moglie, che mi avevano compatito e amato. Sono rimaste vive le orfanelle non
grazie a un loro espediente ma perché c’era stato amore nel cuore di una donna
estranea, che le aveva compatite e amate. E tutti gli uomini sono vivi non
grazie ai loro pensieri ma grazie al fatto che nelle persone c’è amore. Sapevo
già da prima che Dio ha dato la vita agli uomi ni e vuole che essi vivano; ora
ho capito anche un’altra cosa.
Ho capito che Dio non voleva che gli uomini
vivessero divisi, e per questo non ha rivelato loro ciò che serve a ciascuno;
ha voluto invece che vivessero uniti, e per questo ha rivelato loro ciò che
serve a tutti, per se stessi e per gli altri. Adesso ho capito che
all’uomo pare di vivere preoccupandosi di sé, ma invece è vivo solo per
l’amore. Chi è nel l’amore è in Dio e Dio è in lui, perché Dio è amore.
E l’angelo si mise a cantare lode a Dio e la sua
voce scosse tutta l’izba. Si aprì il soffitto e si levò una colonna di fuoco
dalla terra al cielo. E Semen, la moglie e i bambini caddero a terra. L’angelo
allargò le ali dietro le spalle e salì in cielo. E quando Semen riaprì gli
occhi, l’izba era la stessa di prima e nell’izba non c’era più nessuno se non
la sua famiglia.
Lev Tolstoj
tratto da: Racconti per contadini, Associazione culturale Mimesis, pp. 67-91
tratto da: Racconti per contadini, Associazione culturale Mimesis, pp. 67-91
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