Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

giovedì 31 ottobre 2013

Indissolubilità del matrimonio e dibattito sui divorziati risposati e i sacramenti 4

Considerazioni antropologiche e teologico-sacramentali

La dottrina sulla indissolubilità del matrimonio incontra spesso incomprensione in un ambiente
secolarizzato. Laddove si sono smarrite le ragioni fondamentali della fede cristiana, una mera
appartenenza convenzionale alla Chiesa non è più in grado di guidare a scelte di vita importanti e di
offrire alcun supporto nelle crisi dello stato matrimoniale — come anche del sacerdozio e della vita
consacrata. Molti si chiedono: come posso io legarmi per tutta la vita a una sola donna / a un solo
uomo? Chi può dirmi come sarà tra dieci, venti, trenta, quaranta anni di matrimonio? È poi
effettivamente possibile un legame definitivo con una sola persona? Le molte esperienze di
comunione matrimoniale che oggi si spezzano rafforzano lo scetticismo dei giovani nei confronti
delle decisioni definitive della vita.

D’altra parte, l’ideale della fedeltà tra un uomo e una donna, fondato sull’ordine della creazione,
non ha perso alcunché del suo fascino, come evidenziano le recenti inchieste tra i giovani. La
maggior parte di loro aspira a una relazione stabile e duratura, in quanto ciò corrisponderebbe anche
alla natura spirituale e morale dell’uomo. Inoltre va ricordato il valore antropologico del
matrimonio indissolubile: esso sottrae i coniugi dall’arbitrio e dalla tirannia dei sentimenti e degli
stati d’animo; li aiuta ad affrontare le difficoltà personali e a superare le esperienze dolorose;
protegge soprattutto i figli, che patiscono la maggior sofferenza dalla rottura dei matrimoni.
L’amore è qualcosa più del sentimento e dell’istinto; nella sua essenza è dedizione. Nell’amore
coniugale due persone si dicono l’un l’altro consapevolmente e volontariamente: solo te — e te per
sempre. La parola del Signore: «Quello che Dio ha congiunto...» corrisponde alla promessa della
coppia: «Io accolgo te come mio sposo (...) ti accolgo come mia sposa (...) Voglio amarti e onorarti
finché vivo, fino a quando la morte non ci separi». Il sacerdote benedice il patto che i coniugi hanno
stipulato tra loro davanti a Dio. Chiunque avesse dei dubbi sul fatto che il vincolo matrimoniale
abbia qualità ontologica, può lasciarsi istruire dalla Parola di Dio: «In principio Dio creò l’uomo e
la donna. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno
una carne sola. Sicché non sono più due, ma una sola carne» (Matteo, 19, 4-6).
Per i cristiani vale il fatto che il matrimonio dei battezzati, incorporati nel Corpo di Cristo, ha un
carattere sacramentale e rappresenta, quindi, una realtà soprannaturale. Uno dei più gravi problemi
pastorali consiste nel fatto che molti, oggi, giudicano il matrimonio esclusivamente secondo criteri
mondani e pragmatici. Chi pensa secondo lo «spirito del mondo» (1 Corinzi, 2, 12) non può
comprendere la sacramentalità del matrimonio. Alla crescente mancanza di comprensione circa la
santità del matrimonio, la Chiesa non può rispondere con un adeguamento pragmatico a ciò che
appare inevitabile, ma solo con la fiducia nello «Spirito di Dio, perché possiamo conoscere ciò che
Dio ci ha donato» (1 Corinzi, 2, 12). Il matrimonio sacramentale è una testimonianza della potenza
della grazia che trasforma l’uomo e prepara tutta la Chiesa per la città santa, la nuova Gerusalemme,
la Chiesa stessa, pronta «come una sposa adorna per il suo sposo» (Apocalisse, 21, 2).
Il Vangelo della santità del matrimonio va annunciato con audacia profetica. Un profeta tiepido
cerca nell’adeguamento allo spirito dei tempi la sua propria salvezza, ma non la salvezza del mondo
in Gesù Cristo. La fedeltà alle promesse del matrimonio è un segno profetico della salvezza che Dio
dona al mondo: «chi può capire, capisca» (Matteo, 19, 12). L’amore coniugale viene purificato,
rafforzato e accresciuto dalla grazia sacramentale: «Questo amore, ratificato da un impegno mutuo e
soprattutto consacrato da un sacramento di Cristo, resta indissolubilmente fedele nella prospera e
cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito; di conseguenza esclude ogni adulterio e ogni
divorzio» (Gaudium et spes, n. 49). Gli sposi dunque, partecipando in forza del sacramento del
matrimonio all’amore definitivo e irrevocabile di Dio, possono in ragione di ciò essere testimoni
dell’amore fedele di Dio, nutrendo costantemente il loro amore attraverso una vita di fede e di
carità.
Certo, ci sono situazioni — ogni pastore lo sa — in cui la convivenza matrimoniale diventa
praticamente impossibile a causa di gravi motivi, come ad esempio in caso di violenza fisica o
psichica. In queste dolorose situazioni la Chiesa ha sempre permesso che i coniugi si potessero
separare e non vivessero più insieme. Va precisato, tuttavia, che il vincolo coniugale di un
matrimonio validamente celebrato rimane stabile davanti a Dio e le singole parti non sono libere di
contrarre un nuovo matrimonio finché l’altro coniuge è in vita. I pastori e le comunità cristiane si
devono perciò adoperare nel promuovere in ogni modo la riconciliazione anche in questi casi
oppure, quando ciò non è possibile, nell’aiutare le persone coinvolte ad affrontare nella fede la
propria difficile situazione.

Annotazioni teologico-morali

Sempre più spesso viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica
dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si
basa su un concetto problematico di “coscienza”, è già stato respinto nella lettera della
Congregazione del 1994. Certo, in ogni celebrazione della messa i fedeli sono tenuti a verificare
nella loro coscienza se è possibile ricevere la comunione, possibilità a cui l’esistenza di un peccato
grave non confessato sempre si oppone. Essi hanno pertanto l’obbligo di formare la propria
coscienza e di tendere alla verità; a tal fine possono ascoltare nell’obbedienza il magistero della
Chiesa, che li aiuta «a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle
questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Veritatis splendor, n. 64).

Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente
matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità
giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e
Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo
per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il Battesimo è incorporato, è tenuta a
decidere. «Se il matrimonio precedente di fedeli divorziati risposati era valido, la loro nuova unione
non può essere considerata lecita in alcun caso, per il fatto che la recezione dei Sacramenti non si
può basare su ragioni interiori. La coscienza del singolo è vincolata senza eccezioni a questa
norma» (cardinale Joseph Ratzinger, La pastorale del matrimonio deve fondarsi sulla verità,
«L’Osservatore Romano», 30 novembre 2011, pagine 4-5).
Anche la dottrina dell’epichèia, secondo la quale una legge vale sì in termini generali, ma non
sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può essere applicata in questo caso,
perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, che non è
dunque nella disponibilità autoritativa della Chiesa. Questa ha, tuttavia, il pieno potere — sulla
linea del privilegio paolino — di chiarire quali condizioni devono essere soddisfatte prima che un
matrimonio possa definirsi indissolubile secondo il senso attribuitogli da Gesù. Su questa base, la
Chiesa ha stabilito gli impedimenti al matrimonio che sono motivo di nullità matrimoniale e ha
messo a punto una dettagliata procedura processuale.
Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti è quella che
invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando
loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica
sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché
tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato
richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene.
Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel
rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far
altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la
giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non
si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia.
Gesù ha incontrato la donna adultera con grande compassione, ma le ha anche detto: «Va’, e non
peccare più» (Giovanni, 8, 11). La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio
e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena
realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre
celeste.

La cura pastorale

Anche se, per l’intima natura dei sacramenti, l’ammissione a essi dei divorziati risposati non è
possibile, a favore di questi fedeli si devono rivolgere ancora di più gli sforzi pastorali, per quanto
questi debbano rimanere in dipendenza dalle norme derivanti dalla Rivelazione e dalla dottrina della
Chiesa. Il percorso indicato dalla Chiesa per le persone direttamente interessate non è semplice, ma
queste devono sapere e sentire che la Chiesa accompagna il loro cammino come una comunità di
guarigione e di salvezza. Con il loro impegno a comprendere la prassi ecclesiale e a non accostarsi
alla comunione, i partner si pongono a loro modo quali testimoni della indissolubilità del
matrimonio.
La cura per i divorziati risposati non dovrebbe certamente ridursi alla questione della recezionedell’eucaristia. Si tratta di una pastorale globale che cerca di soddisfare il più possibile le esigenze
delle diverse situazioni. È importante ricordare, in proposito, che oltre alla comunione sacramentale
ci sono altri modi di entrare in comunione con Dio.
L’unione con Dio si raggiunge quando ci si rivolge a lui nella fede, nella speranza e nella carità, nel
pentimento e nella preghiera. Dio può donare la sua vicinanza e la sua salvezza alle persone
attraverso diverse strade, anche se esse si trovano a vivere in situazioni contraddittorie. Come
rimarcano costantemente i recenti documenti del Magistero, i pastori e le comunità cristiane sono
chiamati ad accogliere con apertura e cordialità le persone che vivono in situazioni irregolari, per
essere loro accanto con empatia, con l’aiuto fattivo e per far loro sentire l’amore del Buon Pastore.
Una cura pastorale fondata sulla verità e sull’amore troverà sempre e nuovamente in questo campo
le strade da percorrere e le forme più giuste.

© Osservatore Romano

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