– di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 19 giugno 2014
Chi è Marcello Pera? Settantunenne filosofo e politico italiano, è
noto per l’amicizia nata nel periodo di presidenza del Senato
(2001-2006) con l’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Senatore Pera, come ha conosciuto il cardinale Joseph Ratzinger?
Andai a trovarlo nel suo ufficio di Prefetto della Congregazione
della dottrina della fede, essendo stato impressionato da molti suoi
scritti. Mi aveva colpito in particolare il suo libro Fede, verità, tolleranza.
Non pensavo che il relativismo fosse penetrato anche in alcuni settori
della teologia cristiana e lui mi illuminò e mi preoccupò. Se anche i
cristiani rinunciano all'idea di verità, a che cosa più si riduce la
nostra religione? E poi: quali conseguenze ha per la nostra identità un
cristianesimo circoscritto solo ad una “narrativa”, come oggi si dice,
buona quanto qualunque altra?
Che cosa L’ha colpita subito del cardinale?
L’uomo e l’intellettuale. Avvertii subito una personalità del massimo
livello. Lucido, chiaro, diretto, con un pensiero sistematico e molto
articolato. Considera con attenzione e rispetto il suo interlocutore e
non si nasconde alcun problema. Parla laicamente, come scrive, non per
omelie o catechismo, ma per concetti e ragionamenti rigorosi. Ascolta le
domande e non si sottrae a nessuna difficoltà. Mi sono sempre sentito a
mio agio, come davanti ad un maestro. In vita mia, ne ho conosciuti
alcuni di prima grandezza, come Popper, e lui è uno di quelli. Non è
solo un teologo, ma un grande filosofo, aperto, critico, profondo, e con
una vasta cultura in molti settori. E ha una dote personale che solo i
grandi posseggono: è dotato di modestia intellettuale, che gli consente
di sposare lo spirito critico e anche autocritico con la verità in cui
crede. C’è poi l’aspetto personale: è cortese, disponibile, attento,
scrupoloso. E soprattutto franco. Posso dire che, appena cominciammo a
parlare della questione del relativismo, che era l’oggetto del mio primo
interesse per lui, io osservai con cautela che a me sembrava che
occorresse da parte della Chiesa più forza di reazione. Lui mi stupì
perché mi rispose: “Molti nostri vescovi mancano di coraggio”. Io lo
pensavo, ma lui lo disse.
Come si sono sviluppati i rapporti tra voi?
Ci siamo rivisti più volte, mai discutendo di questioni politiche in
senso stretto. Un tema allora all’ordine del giorno anche in parlamento
era l’Europa. E un giorno, proprio sulla situazione culturale e
spirituale dell’Europa, lo invitai a tenere una conferenza presso la
biblioteca del Senato. E’ così che nacque Senza radici: una conversazione non più privata, ma pubblica e scritta.
Quali i temi su cui vi siete trovati in consonanza?
Oltre all’Europa, che anch’io consideravo e considero un deserto
spirituale, il rapporto fra laici e credenti. Anche questo è un tratto
caratteristico del lavoro di Ratzinger: parlare con i laici e sfidarli.
Su tutte, la domanda per il laico è: su che cosa fonda quei valori a cui
lui dice di essere particolarmente legato? In che modo li argomenta e
difende, oggi che sono attaccati dall’interno e dall’esterno? Conosciamo
la risposta, che è sempre la stessa dall’Illuminismo in poi: la
ragione. Già, ma che cosa offre la ragione quando in discussione è
proprio la ragione stessa? Se la ragione di un gruppo arriva a
concludere che è “razionale” consentire, poniamo, l’aborto e la ragione
di un altro gruppo lo nega, a quale ragione si deve far ricorso? E
quando la ragione europea si trova sfidata e attaccata, poniamo, dalla
ragione islamica, a chi possiamo rivolgerci e come possiamo risolvere la
disputa? Non basta dire “dialogo”, come non solo i laici, ma anche
tanta parte della Chiesa oggi dice: il dialogo non è un dialogo se non
esiste un criterio per dialogare. Questo criterio è costruito dalla
ragione o la ragione lo scopre? E se lo scopre, in che modo? Con
un’illuminazione? E’ su questo punto che Ratzinger, che pure è tanto
amante della ragione come l’ultimo dei laici, porta il terreno della
discussione sulla verità. E così si torna ai limiti del relativismo.
Problemi affascinanti, e della massima attualità politica, anche se
apparentemente non sembra.
I rapporti sono proseguiti anche quando Joseph Ratzinger è divenuto Papa? Con quali modalità?
Sì, ci siamo visti anche dopo, e sono continuati nel tempo. Lo
ringrazio ancora e gli sarò sempre debitore per le occasioni di incontri
riservati che mi ha concesso. Non era facile per lui, ma è sempre stato
generoso di sé. Non lo dimenticherò mai. Così come non dimenticherò mai
la prefazione che egli volle scrivere al mio libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Sono un paio di pagine, ma se uno le legge con attenzione ci può trovare un tesoro.
La rinuncia di papa Ratzinger L’ha sorpresa, colpita? La
ritiene un atto razionale? Secondo Lei quali le conseguenze principali
di tale atto?
Mi ha amareggiato, ma non sorpreso. Non ci si sorprende quando uno
diventa vecchio o perde le energie, al più ci si rammarica. Ma ho capito
il suo gesto, o ho ritenuto di capirlo. È come se si fosse rivolto in
ginocchio al Signore e avesse detto. “Signore che cosa vuoi da me? Come
posso servirti, ora che le mie forze diventano impari? In quale altro
modo posso portare la tua Croce e soddisfare le esigenze che mi hai
posto sulle spalle? Come posso servire la tua Chiesa, in un momento per
essa così difficile, se le mie energie non bastano a correggerla?”.
Molti, anche nella Chiesa, stentano a farsi una ragione della sua
rinuncia, e io comprendo anche loro. Ma mi sembra una pigrizia
intellettuale: siccome non si è mai fatto, non può farlo neppure lui.
Questa pigrizia può diventare arroganza, bisogna invece che si trasformi
in un atto di fede, come lo è stato per Benedetto XVI. Quanto alle
conseguenze, non se ne può parlare, semplicemente perché quello del Papa
è stato un atto profetico, e la profezia non si misura con i calcoli
del tempo breve. E’ un disegno di Dio.
Lei ha ancora rapporti con il Papa emerito? Come si configurano?
Sì, lo vedo ancora, e per me è una grande gioia, una benedizione. Il
nostro dialogo e la nostra comunione intellettuale continuano. E mi fa
un immenso piacere vederlo nel suo appartamento e scambiare opinioni con
lui. Ha la stessa lucidità intellettuale di sempre.
La vostra amicizia è tra l’altro molto ben espressa dal già citato Senza radici,
il saggio di dieci anni fa con contributi alterni su Europa,
relativismo, cristianesimo e islam. Da quel 2004 è cambiato qualcosa
sotto questi aspetti in Europa? In meglio? In peggio?
È cambiata in particolare una cosa: di quelle questioni, l’islam, i
rapporti fra le culture, l’identità europea, il ruolo del cristianesimo,
non si discute pressoché più, né nel mondo politico, né in quello della
Chiesa. Ha prevalso la paura, la mancanza di coraggio. Si gira la testa
e si tira avanti, come se nascondere i problemi contribuisse a
risolverli. E questo proprio mentre, per merito soprattutto di Benedetto
XVI, gli stessi Capi di governo europei avevano cominciato a
interrogarsi. Ricorda il laico Sarkozy venire a Roma e dire che la
Francia è una nazione cristiana e che la laicità non è antireligiosa?
Magari non ci credeva sinceramente, ma intanto poneva il tema. Oggi
nessuno dice più neppure cose simili: si teme di sconvolgere il dialogo,
che significa incontro fra muti, o più precisamente incontro fra
chiunque abbia un’opinione forte di sé e parli e gridi e l’Occidente che
non ne ha e non vuole averne nessuna, e perciò sta zitto. Non si
scandalizza neppure più del martirio crescente dei cristiani nel mondo.
Come valuta i risultati delle elezioni europee di fine maggio
dal punto di vista della problematica antropologica? Possiamo
realisticamente attenderci che la nuova Commissione europea e il suo
Parlamento si occupino di vita, famiglia, educazione secondo la
prospettiva propria sia di Joseph Ratzinger che di Marcello Pera?
Spero proprio che la Commissione e il Parlamento europeo non si
mettano a parlare di questi temi, considerando che cosa uscirebbe da
quelle bocche. Non vedo nessuno in Europa che voglia anche minimamente
occuparsi di questioni di identità e civiltà. Nessuno che abbia il
coraggio di richiamarsi alla tradizione cristiana. E se qualcuno lo fa,
gli altri, cioè la maggioranza dei perbenisti, dei dialoganti, degli
accomodanti, lo zittiscono definendolo “xenofobo” o “razzista”. Magari
in molti casi lo sono davvero, ma come si fa a non capire che proprio
tacere sulla nostra identità e nasconderla come fosse una colpa, genera
precisamente quel tipo di xenofobia? Niente, l’Europa oggi parla di
“parametri” per uscire dalla crisi economica, neanche mette in relazione
questa crisi con quella culturale e quella spirituale. Come se un
popolo, centinaia di milioni di persone, fosse una variabile da
aggiustare, il dato di un bilancio da correggere. Che disastro! E che
disastro aumentato, se il nuovo spirito europeo è penetrato anche negli
Stati Uniti!
Ci sono forze – vecchie e/o nuove - che nel nuovo Parlamento
europeo potrebbero aiutare a far sì che tale prospettiva venga condivisa
maggiormente?
L’ho già detto, ci sono molti “xenofobi”. Ma siccome con gli xenofobi
non si discute, succede che gli xenofobi diventano tali davvero e gli
altri, con la scusa della xenofobia, tacciono. Oggi la Germania è
guidata dalla signora Merkel e l’Italia dal signor Renzi, capi di due
grandi famiglie politiche europee che hanno responsabilità di governo.
Avranno mai saputo e si ricorderanno che i loro padri, Adenauer e De
Gasperi, parlavano di una “Europa cristiana”? Che in quella identità
essi vedevano la strada per combattere seriamente i nazionalismi, le
xenofobie, le paure? Me lo auguro. Quanto a me, sono pessimista e sono
molto preoccupato. Gira per l’Europa un brutto spiffero e mi ricordo che
la prima guerra mondiale scoppiò nel cuore del Vecchio Continente
quando nessuno la voleva e se l’aspettava. Eppure, quando detonò un
revolver, eravamo al meglio della nostra civiltà: quattro anni dopo, il
mondo che sopravvisse al cimitero era tutto cambiato.
L’ultimo giorno di mandato la Commissione europea uscente ha
rifiutato che la petizione pro-embrione “Uno di noi” (che ha raccolto
non meno di 1.800.000 firme in quasi tutti i Paesi UE) sia esaminata dal
Parlamento. Come valuta tale decisione?
Che cosa posso rispondere? Che se un’analoga petizione pro-matrimonio
omosessuale o pro-eutanasia fosse presentata anche con poche firme,
passerebbe subito. È già accaduto. D’altro canto, non si tratta di
“conquiste di civiltà”, come dicono?
Il mattino seguente la Camera dei deputati italiana -
presieduta da una fervente ammiratrice di papa Francesco - in gran
fretta e stravolgendo l’ordine del giorno ha approvato il cosiddetto
‘divorzio-express’. Sia in sede europea che nel Parlamento italiano gli
applausi per papa Francesco si sprecano. E tuttavia, quando si tratta di
votare in materia antropologica, tanti tra gli stessi che applaudono
votano contro i contenuti proposti dallo stesso Papa. Come valuta tale
atteggiamento?
Posso solo sperare che le grandi folle che si radunano attorno al
nuovo Papa non siano le stesse che approvano i parlamenti europei quando
parlano di questioni etiche.
C’è chi – tra chi si dichiara cattolico – reputa che la lotta
in materia antropologica non si debba fare in Parlamento, ma in
parrocchia. Sarebbe più efficace. Lei che ne pensa?
Lo sarebbe certamente. Quella battaglia deve essere condotta nelle
famiglie, a scuola, nelle piazze, nelle parrocchie, sui pulpiti, sui
mezzi di informazione, prima ancora che arrivi nei parlamenti. Perché i
parlamenti non sono più composti di élites che possono svolgere
funzione educativa. Sono casse di risonanza e di accondiscendenza di
ciò che accade fuori. Ratificano, non decidono.
Per finire: è ancora possibile che si manifesti con forza
nella società una grande alleanza sui temi antropologici tra chi,
credente o non credente, si attiene ai principi fondamentali della
dottrina sociale della Chiesa su vita e famiglia? In Francia ad esempio è
successo con la ripetuta e massiccia partecipazione di cittadini
soprattutto cattolici, ma anche ebrei, musulmani, protestanti, agnostici
alla Manif pour tous… anche se Hollande – un vero campione di democrazia… - ha scelto sostanzialmente di minimizzare, anzi ignorare de facto tale grande espressione di volontà popolare…
No, non lo ritengo possibile, comunque penso che sia poco probabile,
almeno in quest’epoca. D’altro canto, la Chiesa medesima mostra di avere
problemi con la sua stessa dottrina sociale. Minimizza pur essa. A noi
manca oggi uno che scriva il De civitate Dei mentre l’Impero Romano andava a fondo. Ed era l’Impero Romano, non l’Unione Europea! Come vede, è meglio che chiuda qui.
P.S. L’intervista appare in forma cartacea e in lingua inglese sul numero di giugno 2014 del mensile cattolico statunitense Inside the Vatican (in
uscita in questi giorni). Sullo stesso numero appare, sempre tradotta
in inglese, l’intervista a Guzman Carriquiry che si ritrova in questo
stesso sito www.rossoporpora.org sotto il titolo Il Papa come lo conosco (rubrica: Papa Francesco).
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