Da www.lanuovabq.it.
Ricordo bene quel giorno di febbraio. Ero
all'università. Ogni tanto guardavo fuori dalla finestra e mi chiedevo
se Sara fosse già partita. Sara era rimasta incinta durante un rapida
storia chiusa con un test di gravidanza positivo. Si era rivolta a me
per un aiuto, non sapeva che fare. "È solo un grumo di cellule"
dicevamo. Poi arrivò quella decisione. Mi sentivo fiera di aver
consigliato Sara di abortire. Credevo fermamente in quella libertà che
concede alla donna di gestire la propria sessualità e di controllare la
maternità, fino a eliminarla del tutto. Figli compresi.
Eppure, quel giorno di febbraio qualcosa si frantumò. Se ero così sicura delle mie
convinzioni, perché ogni anno mi tornava alla mente l'anniversario di
quel pomeriggio, l'odore dell'ospedale, il pianto di Sara? Perché ogni
volta che vedevo un neonato, ripensavo a quella scelta con profonda
tristezza? La risposta arrivò qualche anno dopo, durante un seminario
pro-life al quale partecipai. Lì, scoprii cosa fosse realmente un
aborto: un omicidio. O meglio: quello che chiamavo diritto all'aborto
era in realtà un omicidio multiplo dove la madre e il bambino
rappresentavano le principali vittime alle quali andavano aggiunte le
morti interiori collaterali. Io appartenevo a questo gruppo. Approvando
l'aborto, mi procurai una lacerazione interiore di cui però non mi resi
subito conto. Un piccolo buco nel cuore a cui non prestai attenzioni,
troppo presa dall'entusiasmo di una buona carriera lavorativa appena
iniziata e dall'atmosfera progressista nella quale ero immersa.
Ero una terzomondista pronta a promuovere ogni tipo di diritto che potesse rendere la
società più equa e giusta, secondo le idee promosse dalle avanguardie
culturali. Ero anticlericale: parlare di Chiesa significava scandali,
pedofilia, ricchezze smodate, preti il cui interesse era coltivare
qualche vizio. Riguardo all'esistenza di Dio, lo consideravo un
passatempo per vecchiette in pensione. Nelle relazioni, scoprivo uomini
profondamente in crisi con la propria mascolinità, intimoriti
dall’aggressività della donna e incapaci di gestire e prendere
decisioni. Conoscevo donne stanche (tra cui me stessa) di condurre
relazioni con uomini simili a bambini impauriti e immaturi. Provavo
sempre più sfiducia verso l'altro sesso, mentre vedevo cresceva una
forte complicità con le donne, che si rafforzò quando iniziai a
frequentare associazioni e circoli culturali.
I dibattiti e i laboratori erano momenti di confronto sulle questioni sociali, tra cui
l'instabilità dell'esistenza umana. Oltre al lavoro, la precarietà
aveva iniziato a corrodere lentamente la sfera affettiva. Bisognava
rispondere promuovendo le forme di amore basate sulla fluidità
dell'emozione e sull'autodeterminazione, dando via libera a quelle
relazioni in grado di tenere il passo con i mutamenti della società,
cosa che, secondo tale pensiero, la famiglia naturale non era più in
grado di assolvere. Era necessario svincolarsi dal rapporto
maschio-femmina, reputato ormai conflittuale anziché complementare.
In un clima così effervescente, nel giro di poco tempo mi ritrovai a vivere la mia
omosessualità. Accadde tutto in modo semplice. Mi sentii appagata e
credetti così di aver trovato una completezza interiore. Ero certa che
solo con una donna al mio fianco avrei trovato quella piena
realizzazione che era la giusta combinazione di sentimento, emozioni e
ideali. Poco alla volta, però, quel vortice di condivisione emotiva che
si instaurava con le donne sotto le false spoglie di feeling, iniziò a
consumarmi fino ad alimentare quel senso di vuoto nato dall'aborto di
Sara.
Appoggiando la propaganda abortista, infatti, avevo iniziato ad uccidere me stessa,
a partire dal senso di maternità. Stavo negando qualcosa che comprende
sì il rapporto madre-figlio, ma oltre. Infatti, ogni donna è madre che
sa accogliere e tessere i legami della società: la famiglia, gli amici e
gli affetti. La donna esercita una "maternità allargata" che genera
vita: è un dono che conferisce senso alle relazioni, le riempie di
contenuti e le custodisce. Avendo strappato da me questo dono prezioso,
mi ritrovai spogliata della mia identità femminile e in me si creò "quel
piccolo buco nel cuore" che poi divenne una voragine nel momento in cui
vissi la mia omosessualità. Attraverso la relazione con una donna,
stavo cercando di riprendere quella femminilità di cui mi ero privata.
Nel pieno di questo terremoto, mi giunse un invito inaspettato: un viaggio per Medjugorje.
Fu mia sorella a propormelo. Anche lei non era una fan della Chiesa,
non estremista come me, ma quel che bastava perché la sua proposta mi
spiazzasse. Me lo chiese poiché vi era stata qualche mese prima con un
gruppo di amici: ci andò per curiosità e ora voleva condividere con me
questa esperienza che, a detta sua, era stata rivoluzionaria. Mi
ripeteva spesso "tu non sai cosa vuol dire" a tal punto che accettai.
Volevo proprio vedere cosa ci fosse. Di lei mi fidavo, sapevo che era
una persona ragionevole e dunque qualcosa doveva averla toccata.
Comunque, rimanevo della mia idea: dalla religione non poteva giungere
nulla di buono, tantomeno da un posto dove sei persone dichiaravano di
avere delle apparizioni che per me significava una banale suggestione
collettiva.
Con questo mio bagaglio di idee, partimmo. Ed ecco la sorpresa. Ascoltando il racconto
di chi stava vivendo questo fenomeno (i diretti protagonisti, gli
abitanti del posto, i medici che avevano condotto analisi sui veggenti),
mi resi conto dei miei pregiudizi e di come questi mi rendessero cieca e
mi impedissero di osservare la realtà per ciò che era. Ero partita
ritenendo che a Medjugorje fosse tutto finto semplicemente perché per me
la religione era finta e inventata per opprimere la libertà di popoli
creduloni. Eppure, questa mia convinzione dovette fare i conti con un
fatto tangibile: lì a Medjugorje c'era un flusso oceanico di persone che
accorrevano da tutto il mondo. Come poteva essere finto questo evento e
rimanere in piedi per più di trent'anni?
Una menzogna non ha lunga durata, dopo un po' emerge. Invece, ascoltando
molte testimonianze, la gente tornando a casa continuava un percorso di
fede, si accostava ai sacramenti, situazioni drammatiche famigliari si
risolvevano, malati che guarivano, soprattutto dalle malattie
dell'anima, come quelle che comunemente chiamiamo ansie, depressioni,
paranoie, che spesso spingono al suicidio. Cosa c'era a Medjugorje tanto
da ribaltare la vita di quella moltitudine? O meglio: chi c'era? Lo
scoprii ben presto. Lì c'era un Dio vivo che si occupava dei suoi figli
attraverso le mani di Maria. Questa nuova scoperta si concretizzò con
l'ascolto delle testimonianza di chi era passato in quel luogo e aveva
deciso di rimanere per prestare servizio in qualche comunità e per
raccontare ai pellegrini come questa Madre operi laboriosamente per
togliere i propri figli dall'inquietudine. Quel senso di vuoto che mi
accompagnava era uno stato dell'anima che potevo condividere con chi
aveva vissuto esperienze simile alle mie, ma che a differenza di me,
aveva smesso di vagare.
Da quel momento, iniziai a pormi dei quesiti: Qual era la realtà in grado di portarmi
ad una piena realizzazione? Lo stile di vita che avevo intrapreso
corrispondeva effettivamente al mio vero bene oppure era un male che
aveva contribuito a sviluppare quelle ferite dell'anima? A Medjugorje
avevo fatto un'esperienza di Dio concreta: la sofferenza di chi aveva
vissuto un'identità frantumata era anche la mia sofferenza e l'ascolto
delle loro testimonianze e della loro "resurrezione" mi aveva aperto gli
occhi, quegli stessi occhi che in passato vedevano la fede con le lenti
asettiche del pregiudizio. Ora, quell'esperienza di Dio che "non
lascia mai soli i suoi figli e soprattutto non nel dolore e non nella
disperazione” iniziata a Medjugorje continuò nella mia vita,
frequentando la Santa Messa. Avevo sete di verità e trovavo ristoro solo
attingendo a quella fonte di acqua viva che si chiama Parola di Dio.
Qui, infatti, trovai inciso il mio nome, la mia storia, la mia identità;
poco alla volta compresi che il Signore pone un progetto originale per
ciascun figlio, fatto di talenti e qualità che conferiscono unicità alla
persona.
Lentamente, la cecità che offuscava la ragione si sciolse e in me nacque il dubbio che
quei diritti alla libertà nei quali avevo sempre creduto, fossero in
realtà un male camuffato da bene che impedivano alla vera Francesca di
emergere nella sua integrità. Con occhi nuovi, intrapresi un percorso
nel quale cercai di comprendere la verità della mia identità. Partecipai
a dei seminari pro-life e lì mi confrontai con chi aveva vissuto
esperienze simili alla mia, con psicoterapeuti e sacerdoti esperti sulle
tematiche legate all'identità: finalmente, ero senza lenti teoriche e
vivevo la realtà. Infatti, qui misi insieme i pezzi di questo intricato
puzzle che era diventata la mia vita: se prima i pezzi erano sparsi e
incastrati in malo modo, adesso stavano assumendo un ordine tale per cui
iniziavo a intravedere un disegno: la mia omosessualità era stata la
conseguenza di una identità tagliata del femminismo e dell'aborto.
Proprio ciò in cui per anni avevo creduto potesse pienamente
realizzarmi, mi aveva uccisa, vendendomi menzogne spacciate per verità.
Partendo da questa consapevolezza, iniziai a riconnettermi con la mia identità
di donna, riprendendo ciò che mi era stato rubato: me stessa. Oggi sono
sposata e al mio fianco cammina Davide che mi è stato vicino in questo
percorso. Per ciascuno di noi esiste un progetto creato da Colui che é
l'unico in grado di guidarci realmente a ciò che siamo. Tutto sta nel
dire il nostro sì come figli di Dio, senza avere la presunzione di
uccidere quel progetto con false aspettative ideologiche che mai
potranno sostituire la nostra natura di uomini e donne.
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