Mentre scendo la scalinata di Piazza Bologna,
scuotendo la testa, intravedo un vecchio amico che calamita tutti i
mendicanti e passanti come orsi sul miele. È don Federico. Tutti dicono
male dei preti, ma poi tutti vanno dai preti quando si sentono caduti
giù al livello degli iloti. Chi gli chiede la benedizione del negozio lì
vicino, chi i maledetti “50 centesimi”, chi vuole raccontagli le sue
sventure, non lo lasciano proseguire. Mi vede che lo osservo e mi saluta
ridente: «Ehi ciao: perdona, è il gregge di Dio, ne sento anche
l’odore, ti resta addosso e non va più via. Mi dico sempre che non devo
vestirmi da prete quando esco».
Tutti raccontano che i preti sarebbero i “cattivi”,
lo dice la televisione, le leggende metropolitane lo raccontano, la vox
populi lo vuole. Ma poi nel bisogno tutti ricorrono al prete perché
ciascuno dentro di sé pensa – e pazienza se per taluni è sinonimo di
fesso e di pollo da spennare – “se è prete, se si è fatto prete è perché
in fondo è buono: non può non essere buono un prete, volente o
nolente”.
Lo chiamavano “Padre”,
rimirando la sua linguetta al collo, mentre ne invocavano il soccorso.
Perché ricordava a tutti gli immemori il generoso sacrificio della croce
che il prete ripercorre con la sua scelta estrema, scandalosa,
dolorosa. Di crocifissione quotidiana. E di redenzione. Avrebbe voluto
farsi in mille pezzi per tutti e distribuirsi tra tutti quei derelitti,
sfamarli, consolarli, “non lasciarli soli”. Il prete è una eucarestia
vivente.
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