di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI (Corriere della Sera)
A 31 anni si è un uomo, è vero, ma ciò non toglie che si resti figlio. Essendo malato, a maggior ragione Stefano Cucchi era figlio. E se anche fosse stato uno spacciatore, un criminale, dunque, sempre figlio rimaneva.
Perciò ai suoi genitori non si può venire a dire — come fossero estranei terzi, soltanto vagamente interessati alla sorte di quel ragazzo — che gli orribili lividi sul suo volto e sul suo corpo erano stati provocati da una caduta dalle scale. Aveva diritto, la sua famiglia, qualunque cosa Stefano avesse fatto, di essere avvisata per poterlo visitare, per almeno vederlo, salutarlo, carezzarlo prima che morisse. Aveva diritto che un figlio non venisse trattato come una qualsiasi pratica dimenticata.
Sono metodi da incivile e arretrata dittatura questi, di cui non raramente leggiamo nelle cronache internazionali, costernati e orripilati per il fatto che in qualche Paese capita che un giovane sparisca un bel giorno in prigione e venga tempo dopo restituito cadavere ai genitori. Ma subito dopo ci sentiamo sollevati e grati che questo succeda soltanto altrove, a migliaia di chilometri di distanza, non nel nostro bel Paese civile.
E invece succede, è successo uguale, identico. L’unica differenza è, forse, che da noi i genitori di un ragazzo arrestato, sparito e ricomparso come corpo orribilmente tumefatto e senza vita, possono protestare e processare, chiedere giustizia e sperare di ottenerla.
Se pietà per la famiglia prima non c’è stata, che ci sia almeno adesso. Che la si rispetti, che la si compianga e che, soprattutto, non la si riempia di bugie, perché, si sa, al dolore si aggiungerebbe il dolore, oltre all’amarissima, infinita rabbia di chi ha patito un sopruso e un'ingiustizia in soprappiù. Che le si risparmino le storie di cadute accidentali giù per le scale, sentite già troppe volte da mariti maneschi, da mogli piegate, da mamme che hanno perso la ragione. Che si trovi il coraggio, insomma, di dirle cosa è successo a quel povero corpo da ecce homo.
A 31 anni si è un uomo, è vero, ma ciò non toglie che si resti figlio. Essendo malato, a maggior ragione Stefano Cucchi era figlio. E se anche fosse stato uno spacciatore, un criminale, dunque, sempre figlio rimaneva.
Perciò ai suoi genitori non si può venire a dire — come fossero estranei terzi, soltanto vagamente interessati alla sorte di quel ragazzo — che gli orribili lividi sul suo volto e sul suo corpo erano stati provocati da una caduta dalle scale. Aveva diritto, la sua famiglia, qualunque cosa Stefano avesse fatto, di essere avvisata per poterlo visitare, per almeno vederlo, salutarlo, carezzarlo prima che morisse. Aveva diritto che un figlio non venisse trattato come una qualsiasi pratica dimenticata.
Sono metodi da incivile e arretrata dittatura questi, di cui non raramente leggiamo nelle cronache internazionali, costernati e orripilati per il fatto che in qualche Paese capita che un giovane sparisca un bel giorno in prigione e venga tempo dopo restituito cadavere ai genitori. Ma subito dopo ci sentiamo sollevati e grati che questo succeda soltanto altrove, a migliaia di chilometri di distanza, non nel nostro bel Paese civile.
E invece succede, è successo uguale, identico. L’unica differenza è, forse, che da noi i genitori di un ragazzo arrestato, sparito e ricomparso come corpo orribilmente tumefatto e senza vita, possono protestare e processare, chiedere giustizia e sperare di ottenerla.
Se pietà per la famiglia prima non c’è stata, che ci sia almeno adesso. Che la si rispetti, che la si compianga e che, soprattutto, non la si riempia di bugie, perché, si sa, al dolore si aggiungerebbe il dolore, oltre all’amarissima, infinita rabbia di chi ha patito un sopruso e un'ingiustizia in soprappiù. Che le si risparmino le storie di cadute accidentali giù per le scale, sentite già troppe volte da mariti maneschi, da mogli piegate, da mamme che hanno perso la ragione. Che si trovi il coraggio, insomma, di dirle cosa è successo a quel povero corpo da ecce homo.
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