Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 26 giugno 2010

IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE 4

Il peccato

Come scrive l’apostolo Giovanni, “se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati” (1Gv 1,8). Riconoscere il proprio peccato, anzi, riconoscersi peccatori, capaci di peccato e portati al peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio. E’ l’esperienza esemplare di Davide che, dopo “aver fatto male agli occhi del Signore”, rimproverato dal profeta Nathan (2Sam 11-12), esclama: “Riconosco la mia colpa, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto” (Sal 51).
Il verbo che indica il peccare è amartano che, da Omero in poi significa mancare, perdere, non essere partecipi di una cosa, ingannarsi – questo termine nel NT esprime tutto ciò che si oppone a Dio; un altro termine è parabaino che significa camminare fuori strada, passare accanto, deviare. Peccare significa quindi mettersi fuori dall’ordinamento stabilito da Dio, porre se stessi al suo posto e andare per la propria strada. Il peccato, prima ancora che opposizione a Dio, è autonomia rispetto a Lui.
Riconciliarsi con Dio, quindi, presuppone e include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal peccato, in cui si è caduti. Per rientrare, bisogna essere consapevoli di essere usciti. Suppone il fare penitenza nel senso più completo del termine: pentirsi, manifestare pentimento, assumere l’atteggiamento concreto del pentito, che è quello di chi si mette sulla via del ritorno – poenitentia è sinonimo di conversione -.
Il racconto della Torre di Babele fa emergere un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. Anche il racconto di Gen 2 del peccato dei progenitori, pur nella totale diversità del testo, ha come denominatore comune il tentativo di escludere Dio. Sia a Babele che in Eden viene troncato, di fatto, ogni rapporto con Dio. Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio, lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato.
Il peccato è disobbedienza dell’uomo che, con un atto della sua libertà (seppur pesso condizionata), non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel determinato momento.
Sia nel caso di Eden che di Babele, la conseguenza del peccato è stata la frantumazione della famiglia umana. Poiché col peccato l’uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, questo produce danni alla persona stessa – non si può maneggiare il carbone e pretendere di rimanere puliti – e, di riflesso nel tessuto dei rapporti con gli altri esseri.
Il peccato è sempre un atto della persona, e non propriamente di un gruppo. Quest’uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condiziono personale, ma l’adesione al peccato è sempre personale, tant’è che a fronte del medesimo condizionamento non tutti reagiscono allo stesso modo. Non possiamo scaricare sempre tutta la responsabilità del nostro peccato sulla realtà esterna. In ogni uomo non c’è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtù o la responsabilità della colpa.
Il primo passo necessario per convertirsi è assumersi la responsabilità del proprio peccato; finché la colpa sarà trasferita fuori da sé, non potrà esserci guarigione.
Il peccato pur essendo personale, ha un riflesso sociale perché “ogni anima che si eleva, eleva il mondo”, ma per contro, un’anima che si abbassa per il peccato, abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. E’ come se delle tossine invisibili venissero immesse nell’atmosfera.

Peccato veniale e peccato mortale

E’ evidente che, se alla base di ogni peccato c’è un’autonomia da Dio, non tutti i peccati hanno la stessa gravità. Già nell’AT, per non pochi peccati, quelli commessi con deliberazione, si dichiarava che il reo doveva essere messo a morte: “Chiunque maledice suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte. … Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte. … Se uno ha rapporti con un uomo come con una donna, tutti e due hanno commesso un abominio; dovranno essere messi a morte …” (Lv 20,9ss). A questi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio (Lv 4,2ss).
San Giovanni scrive: “Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita: a coloro, cioè, il cui peccato non conduce alla morte. C’è infatti un peccato che conduce alla morte; non dico di pregare riguardo a questo peccato. Ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato che non conduce alla morte” (1Gv 5,16s). Qui chiaramente il concetto è di morte spirituale, ossia della perdita della comunione e intimità con Dio. C’è un peccato che ha la capacità di creare una frattura radicale tra l’uomo e Dio. La teologia cattolica ha indicato alcune caratteristiche che permettono di individuare quando un peccato è mortale:
1. materia grave
2. piena consapevolezza – la consapevolezza che quel determinato comportamento è grave -
3. deliberato consenso – adesione consapevole a un comportamento che si riconosce grave -
Chiamiamo peccato mortale un atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l’alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino” (Reconciliatio et Paenitentia 17).
Come si fa a capire quando c’è materia grave? E’ la relazione con Dio, con la sua parola che consente una certa chiarezza, altrimenti si cade nell’inganno di chiamare peccato ciò che non lo è e di non considerare ciò che invece lo è (es. confessare di non essere andati a Messa a causa di una malattia e non preoccuparsi per il fatto di non parlarsi con un parente in seguito a un conflitto su un’eredità).
E’ veniale invece il peccato che costituisce una sosta o distrazione nel cammino verso la conoscenza e l’amore di Dio, ma che non è una scelta di abbandonare la via di Dio. Il peccato veniale non è il peccato che si può commettere tranquillamente, per il quale non si deve fare attenzione, perché in questo caso, la gravità invece di essere data dalla profondità, è data dalla quantità. Ciò significa che un atto in sé può essere veniale, ma se ripetuto per anni può incancrenirsi e diventare un’abitudine e, l’abitudine a peccare non può mai essere considerata una cosa da poco.

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