Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

domenica 4 luglio 2010

GUAI A ME SE NON ANNUNCIASSI IL VANGELO

XIV DOMENICA T.O.


Il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò …” (Lc 10,1); sappiamo che nella Scrittura i numeri spesso hanno un valore simbolico: Gesù ha chiamato per primi dodici uomini, per segnalare la continuità tra la sua Chiesa e il popolo d’Israele diviso in dodici tribù; oggi il Signore ne sceglie e ne invia altri 72, perché, secondo un’antica tradizione giudaica i pagani erano sparsi nel mondo intero esattamente in settantadue nazioni. Con questo numero di inviati ci viene detto che il Vangelo con la sua straordinaria forza rinnovatrice è destinato a tutti i popoli e infatti lo stesso evangelista ci descriverà la diffusione del Vangelo fuori dalla Palestina – negli Atti degli Apostoli -.

Siamo chiamati a prendere coscienza della nostra natura missionaria. La Chiesa e, quindi ogni singolo battezzato, è chiamata a essere missionaria.

Cosa significa essere missionari? Andare a imporre la morale cattolica e il Vangelo a chi ancora non lo conosce o a chi ostinatamente lo rifiuta? Andare nel Terzo mondo a sanare le gravi deficienze di struttura a servizio delle persone? Né l’uno né l’altro.

E’ missionario innanzitutto chi ha fatto una scoperta; chi è stato affascinato dalla bellezza di Dio - “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7) -; chi si sente abbracciato dalla sua fedeltà; chi ha scoperto la perla preziosa o il tesoro nel campo. Il missionario è uno che ha in sé una sorgente che zampilla e che non può contenere: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla …” (Gv 4,14).

Il missionario non è uno che sceglie o si impone di dare una testimonianza, ma chi non può tacere, chi non riesce più a trattenere ciò che possiede; ancora una volta Geremia esprime chiaramente il concetto: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9). San Paolo il grande annunciatore scrive ai Corinti: “Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!” (1Cor 9,16).

Il missionario è anche uno che ama molto e non vuole trattenere per sé le meraviglie che ha scoperte, le vuole condividere per far partecipi coloro che incontra. Chi ha scoperto la via, la verità e la vita, non può tenerla per sé quando vede che intorno tanti altri la cercano disperatamente, senza trovarla. E’ come chi, avendo scoperto una sorgente di acqua fresca e limpida, vuole farne conoscere il luogo a coloro che sono assetati.

Ha ancora senso parlare oggi di missione, non rischiamo di fare violenza alla libertà altrui? Offrire da bere a qualcuno che ha sete è una violenza? Sapere di avere a disposizione l’unica cosa che può veramente saziare l’umanità significa offendere gli altri? A me sembra sinceramente di no. Diverso è il discorso dell’imposizione che non può mai caratterizzare l’annuncio cristiano, perché Dio non ci obbliga ad amarlo e tanto meno noi possiamo obbligare gli altri a farlo.

Come annunciare? Scriveva già nel 1975 papa Paolo VI: “La testimonianza della vita è divenuta più che mai una condizione essenziale per l’efficacia profonda della predicazione” (EN 1702). La vita stessa del credente, laico, chierico o religioso che sia, deve essere una parola chiara, forse non capita, ma chiara. Chi ci vede, deve intuire che esiste un modo diverso di vivere, di pensare, di agire. La nostra vita deve essere alternativa. L’umanità oggi ha bisogno di alternative: chi gliele indica? Il grande Papa scrive ancora: “Lo diciamo a tutti: bisogna che il nostro zelo per l’evangelizzazione scaturisca da una vera santità di vita … Il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscono e che sia loro familiare … Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli … Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell’uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infeconda” (EN 1703).

Io devo ringraziare il Signore per le tante testimonianze di vita santa che ho avuto nella mia storia e anche oggi, che vivo a Baccanello, non posso che rimanere incantato dalla vita di piccole perle nascoste. Ci sono in giro molti più santi di quanto non pensiamo.

Nella lettera ai Romani troviamo queste parole: “Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati” (Rom 10,14). “Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non siano proclamati” (EN 1614). Quando l’occasione si presenta opportuna, abbiamo la responsabilità di donare la Parola che Dio ci ha affidata, perché dalle nostre mani, passi in quelle altrui. Abbiamo quindi anche la responsabilità di conoscere, di approfondire tutti la Parola del Signore; non possiamo più tardare.

Non dobbiamo andare lontano, non ci aspetta l’Africa, ma le nostre case, i nostri quartieri dove oramai ci sono persone che di Cristo non sanno più nulla; le fabbriche dove lavoriamo e le scuole dove studiamo.

Non serve aver studiato teologia, serve un’esperienza viva e vera di Dio: “quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono … noi lo annunciamo a voi” ((1Gv 1,1s). Questo è alla portata di tutti, nessuno escluso.

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