Cari fratelli e sorelle,
Oggi vorrei riflettere con voi su un testo del Libro della Genesi  che narra un episodio abbastanza particolare della storia del Patriarca  Giacobbe. È un brano di non facile interpretazione, ma importante per  la nostra vita di fede e di preghiera; si tratta del racconto della  lotta con Dio al guado dello Yabboq, del quale abbiamo sentito un brano.
Come ricorderete, Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la  primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito  con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano,  approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era  rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e  ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello  dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è  tutto pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro  che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di  Esaù, Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno  sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo  combattimento corpo a corpo - che troviamo nel capitolo 32 del Libro della Genesi - diventa per lui una singolare esperienza di Dio.
La notte è il tempo favorevole per agire nel nascondimento, il tempo,  dunque, migliore per Giacobbe, per entrare nel territorio del fratello  senza essere visto e forse con l’illusione di prendere Esaù alla  sprovvista. Ma è invece lui che viene sorpreso da un attacco imprevisto,  per il quale non era preparato. Aveva usato la sua astuzia per tentare  di sottrarsi a una situazione pericolosa, pensava di riuscire ad avere  tutto sotto controllo, e invece si trova ora ad affrontare una lotta  misteriosa che lo coglie nella solitudine e senza dargli la possibilità  di organizzare una difesa adeguata. Inerme, nella notte, il Patriarca  Giacobbe combatte con qualcuno. Il testo non specifica l’identità  dell’aggressore; usa un termine ebraico che indica "un uomo" in modo  generico, "uno, qualcuno"; si tratta, quindi, di una definizione vaga,  indeterminata, che volutamente mantiene l’assalitore nel mistero. È  buio, Giacobbe non riesce a vedere distintamente il suo contendente e  anche per il lettore, per noi, esso rimane ignoto; qualcuno sta  opponendosi al Patriarca, è questo l’unico dato certo fornito dal  narratore. Solo alla fine, quando la lotta sarà ormai terminata e quel  "qualcuno" sarà sparito, solo allora Giacobbe lo nominerà e potrà dire  di aver lottato con Dio.
L’episodio si svolge dunque nell’oscurità ed è difficile percepire  non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia  l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso  stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi  utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono  in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei  due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta  l’altro come vincitore. All’inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il  più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo»  (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore,  provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba  soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il  Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi  avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il  fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo  sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma  senza poterlo ancora veramente riconoscere.
Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe,  invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome:  "Come ti chiami?". E il Patriarca risponde: "Giacobbe" (v. 28). Qui la  lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno,  infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome,  nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo,  ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora  conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare.  Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il  proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma  di resa, di consegna totale di sé all’altro.
Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente  risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al  riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: «Non  ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e  con gli uomini e hai vinto» (v. 29). "Giacobbe" era un nome che  richiamava l’origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti,  ricorda il termine "calcagno", e rimanda il lettore al momento della  nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la  mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi  prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe  consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo  "ingannare, soppiantare". Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela  al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà  di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma  questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa  Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma  anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il  significato più probabile del nome Israele è "Dio è forte, Dio vince".
Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto - è l’avversario stesso ad  affermarlo - ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario,  afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a  sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si  rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella  benedizione che il Patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli  viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma  quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché  ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna  inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così,  al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può  finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: «Davvero –  disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta  salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome  nuovo ma "vinto" da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita  ricevuta.
Le spiegazioni che l’esegesi biblica può dare riguardo a questo brano  sono molteplici; in particolare, gli studiosi riconoscono in esso  intenti e componenti letterari di vario genere, come pure riferimenti a  qualche racconto popolare. Ma quando questi elementi vengono assunti  dagli autori sacri e inglobati nel racconto biblico, essi cambiano di  significato e il testo si apre a dimensioni più ampie. L’episodio della  lotta allo Yabboq si offre così al credente come testo paradigmatico in  cui il popolo di Israele parla della propria origine e delinea i tratti  di una particolare relazione tra Dio e l’uomo. Per questo, come  affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la  tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il  simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della  perseveranza» (n. 2573). Il testo biblico ci parla della lunga notte  della ricerca di Dio, della lotta per conoscerne il nome e vederne il  volto; è la notte della preghiera che con tenacia e perseveranza chiede a  Dio la benedizione e un nome nuovo, una nuova realtà frutto di  conversione e di perdono.
La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il  credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che  nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede  fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio  nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre  misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro  utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo,  perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se  l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il  suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi  a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando  giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.
Cari fratelli e sorelle, tutta la nostra vita è come questa lunga  notte di lotta e di preghiera, da consumare nel desiderio e nella  richiesta di una benedizione di Dio che non può essere strappata o vinta  contando sulle nostre forze, ma deve essere ricevuta con umiltà da Lui,  come dono gratuito che permette, infine, di riconoscere il volto del  Signore. E quando questo avviene, tutta la nostra realtà cambia,  riceviamo un nome nuovo e la benedizione di Dio. E ancora di più:  Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo  anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina  Penuel, che significa "Volto di Dio". Con questo nome riconosce quel  luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra  imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui  che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia  trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. Che il Signore ci aiuti a  combattere la buona battaglia della fede (cfr 1Tm 6,12; 2Tm 4,7) e a chiedere, nella nostra preghiera, la sua benedizione, perché ci rinnovi nell’attesa di vedere il suo Volto. Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In  particolare, saluto i rappresentanti dell’associazione "L’Ora di Gesù"  della diocesi di Taranto, accompagnati dal loro Pastore Mons. Benigno  Luigi Papa, e li incoraggio a proseguire con gioia nel loro cammino di  fede, diventando sempre più testimoni coraggiosi al servizio della vita e  della dignità umana. Saluto gli esponenti della comunità "Regina Pacis"  di Verona, che celebrano il 25° anniversario di fondazione, e faccio  voti che da questa fausta ricorrenza scaturisca un rinnovato ardore  apostolico. Saluto i fedeli della parrocchia di San Pietro in Carolei e  auspico che questo incontro possa apportare ricchi frutti spirituali  alla comunità parrocchiale.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Ieri abbiamo  celebrato la festa della Madonna venerata con il titolo di Maria  Ausiliatrice. Maria aiuti voi, cari giovani, specialmente voi alunni  della Scuola S. Vincenzo de’ Paoli di Reggio Calabria, a rinsaldare ogni  giorno la vostra fedeltà a Cristo. Ottenga conforto e serenità per voi,  cari ammalati. Incoraggi voi, cari sposi novelli, a tradurre nella vita  quotidiana il comandamento dell'amore.
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