È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta ...
Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa,
in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la
cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla
Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli
Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del
diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel
Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione
della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che
cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza,
una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli
chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il
bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci
che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico.
Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come
politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale.
La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le
condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico
cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la
possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato
al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e
all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una
seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto,
alla distruzione della giustizia.
“Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”[1]
ha sentenziato una volta sant’Agostino. Noi tedeschi sappiamo per
nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio.
Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi
del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo
Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era
diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva
minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio.
Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e
rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in
cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito
diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il
mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini.
Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il
bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.
In gran parte della materia da regolare giuridicamente,
quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è
evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in
gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario
non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona
che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio
orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha
giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti
giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo
della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in
mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se,
in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è
appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”[2].
In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza
hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari,
rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per
queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto
vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico
democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della
verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è
altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali
questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto
vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione
come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la
giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta
e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre
capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.
Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti
giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base
di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è
giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il
cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto
rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha
invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto
– ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva,
un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella
Ragione creatrice di Dio.
Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento
filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a.C. Nella
prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il
diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli
maestri del diritto romano[3]. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale,
che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura
giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e
filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo
sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei
Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il
nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e
inalienabili diritti dell'uomo come fondamento di ogni comunità umana,
della pace e della giustizia nel mondo”.
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è
stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il
diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano
messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte
giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro
correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando,
nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la
Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi …
sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è
scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro
coscienza…” (Rm 2,14s).
Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza,
in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la
ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca
dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda
guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale
la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita,
nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della
situazione.
L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina
cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al
di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di
menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente
indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale
anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe
un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un
dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La
base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura.
Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un
aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed
effetti”[4], allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico. Una
concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo
puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non
può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare
nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche
per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata
come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o
falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto.
Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del
soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto
della parola.
Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in
gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche
di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa
è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria
una discussione pubblica; invitare urgentemente a essa è un’intenzione
essenziale di questo discorso.
Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista
del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e
della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare.
Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia
sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza.
Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura
sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di
sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità.
Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di
riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento
comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre
convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una
sottocultura.
Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del
mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al
contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione
positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di
percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli
edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la
luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto
di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo
autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio,
che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le
finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la
terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.
Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità,
nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza
scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella
sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni?
Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella
speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche
unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico
nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo
forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela
all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né
accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone
giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è
qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il
nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi
dobbiamo seguire le sue indicazioni.
È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo.
Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va,
allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo
rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura.
Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto.
L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il
linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però
affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi
come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede
una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere.
L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non
crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua
volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando
accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio
così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.
Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo
partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di
84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi
consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado
di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme
possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la
natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse
messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice –
presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella
natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente
vana”, egli nota a proposito[5].
Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso
riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non
presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?
A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio
culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di
un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea
dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la
conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola
persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il
loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra
memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe
un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe
della sua interezza.
La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme,
Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione
filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo
triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella
consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel
riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo
incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro
compito in questo momento storico.
Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata
concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di
oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso
che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un
cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di
stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.
[5] Citato secondo Waldstein, op. cit. 19.
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