Diacono e teologo. Amico di Basilio il Grande e di Gregorio di Nazianzo, visse a Costantinopoli, prima di ritirarsi tra i Padri del deserto (nel 385) come discepolo di Macario l'Egiziano. Nei suoi scritti, in particolare nel Trattato sulla preghiera e nel Praktikos, racchiuse il suo insegnamento sulla vita monastica. A lui si deve una prima classificazione dei vizi capitali e dei mezzi per combatterli.
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La gola
L’origine del
frutto è il fiore e l’origine della vita attiva è la temperanza chi domina il
proprio stomaco fa diminuire le passioni, al contrario chi è soggiogato dai
cibi accresce i piaceri. Come Amalec è l’origine dei popoli così la gola lo è
delle passioni. Come la legna è alimento del fuoco così i cibi sono alimento
dello stomaco.
Molta legna anima una grande fiamma e un’abbondanza di cibarie
nutre la cupidigia. La fiamma si estingue quando viene meno la legna e la
penuria di cibo spegne la cupidigia. Colui che ha potere sulla mascella
sbaraglia gli stranieri e scioglie facilmente i vincoli delle proprie mani.
Dalla mascella gettata via sgorga una fonte d’acqua e la liberazione dalla gola
genera la pratica della contemplazione. Il palo della tenda, irrompendo, uccise
la mascella nemica ed il lògos della temperanza uccide la passione. Il
desiderio di cibo genera disobbedienza e una dilettosa degustazione caccia dal
paradiso. Saziano la strozza i cibi fastosi e nutrono l’insonne verme
dell’intemperanza. Un ventre indigente prepara ad una preghiera vigile, al
contrario un ventre ben pieno invita ad un lungo sonno. Una mente sobria si
raggiunge con una dieta molto scarna, mentre una vita piena di mollezze tuffa
la mente nell’abisso. La preghiera del digiunatore è come il pulcino che vola
più alto dell’aquila mentre quella del crapulone è avvolta nelle tenebre. La
nube nasconde i raggi del sole e la grassa digestione dei cibi offusca la
mente.
Capitolo 2
Uno specchio
sporco non riflette distintamente la forma che gli si pone di fronte e
l’intelletto, ottuso dalla sazietà, non accoglie la conoscenza di Dio. Una
terra incolta genera spine e da una mente corrotta dalla gola germogliano
cattivi pensieri. Come il brago non può emanare fragranza neppure nel goloso
sentiamo il soave profumo della contemplazione. L’occhio del goloso scruta con
curiosità i banchetti, mentre lo sguardo del temperante osserva i simposi dei
saggi. L’anima del goloso enumera i ricordi dei martiri, mentre quella del
temperante imita il loro esempio. Il soldato vigliacco rabbrividisce al suono
della tromba che preannuncia la battaglia, ugualmente trema il goloso di fronte
ai proclami di temperanza. Il monaco goloso, sottomesso a sferzate dal proprio
stomaco, esige il suo tributo giornaliero. Il viandante che cammina di buona
lena raggiungerà presto la città e il monaco temperante arriverà presto ad uno
stato di pace; il viandante lento si fermerà solo, all’aperto, ed il monaco
ghiottone non raggiungerà la casa dell’apàtheia. L’umido vapore del suffumigio
profuma l’aria, come la preghiera del temperante delizia l’olfatto divino. Se
ti concedi al desiderio dei cibi nulla più ti basterà per soddisfare il tuo
piacere: il desiderio dei cibi, infatti, è come il fuoco che sempre accoglie e
sempre avvampa. Una misura sufficiente riempie il vaso mentre un ventre
sfondato non dirà mai: «basta!». L’estensione delle mani mise in fuga Amalec e
una vita attiva elevata sottomette le passioni carnali.
Capitolo 3
Stermina tutto ciò
che ti ispirano i vizi e mortifica fortemente la tua carne. In qualunque modo,
infatti, sia ucciso il nemico, esso non ti incuterà più paura, così un corpo
mortificato non turberà l’anima. Un cadavere non avverte il dolore del fuoco e
tantomeno il temperante sente il piacere del desiderio estinto. Se percuoti un
egiziano, nascondilo sotto la sabbia, e non ingrassare il corpo per una
passione vinta: come infatti nella terra grassa germina ciò che è nascosto così
nel corpo grasso rivive la passione. La fiamma che illanguidisce si riaccende
se viene aggiunta della legna secca e il piacere che si va attenuando rivive
nella sazietà dei cibi; non compiangere il corpo che si lagna per lo sfinimento
e non rimpinzarlo con pranzi sontuosi: se infatti lo rinforzerai ti si rivolterà
contro muovendoti una guerra senza tregua, finché renderà schiava la tua anima
e ti menerà servo della lussuria. Il corpo indigente è come un docile cavallo e
mai disarcionerà il cavaliere: questo, infatti, costretto dal freno, arretra e
obbedisce alla mano di chi tiene le briglie, mentre il corpo, domato dalla fame
e dalle veglie, non recalcitra per un cattivo pensiero che lo cavalca ne
nitrisce eccitato dall’impeto delle passioni.
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