Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

lunedì 27 febbraio 2012

I giovani e l'Africa di Luigi Accattoli


in “La Lettura” del 26 febbraio 2012

La Chiesa cattolica è in crisi: lo gridano i media e lo ammettono i custodi del tempio. Ma che crisi è? Qui le opinioni confliggono, sia tra gli analisti sia tra i protagonisti. Anche solo a spiegazione del gridio dei corvi vaticani che dura ormai da un mese, c'è chi parla di una crisi della fede cristiana in generale, chi di decadenza delle Chiese storiche, o delle Chiese europee, o della leadership cattolica, o della governance curiale. I giornali si occupano soprattutto di quest'ultima, Benedetto XVI parla invece di crisi della fede, e più precisamente di crisi della fede in Europa.

Abbiamo la curiosa situazione di un Papa che dice di più in negativo sulla Chiesa di quanto non dicano i suoi critici. Questi — poniamo un Hans Küng, o il movimento internazionale «Noi siamo Chiesa» — affermano che le cose non andrebbero poi così male se solo si avesse il coraggio di fare alcune riforme: per una maggiore democrazia nelle decisioni, un più attivo ruolo dei laici e delle donne, una tonalità più positiva della predicazione, una minore preoccupazione per la nuova cultura sessuale e bioetica, meno attaccamento a vecchie forme di presenza delle Chiese nella vita pubblica e politica.
Chi propone le riforme parla di crisi di leadership e accusa Montini, Luciani, Wojtyla e Ratzinger di scarsa fedeltà allo spirito innovatore del Vaticano II. I sostenitori di questa tesi argomentano che intorno al 1967-68, dopo la prima tornata di riforme conciliari, nella cupola romana del cattolicesimo è prevalsa la «paura» della divisione interna e l'aggiornamento è stato fermato.
Ne sarebbe venuta una demotivazione delle componenti più attive della comunità cattolica e un suo progressivo allontanamento dai mondi vitali dell'umanità di oggi.
Papa Benedetto invece ritiene che la crisi sia molto più profonda e che a nulla rimedierebbero quegli aggiornamenti dell'organizzazione e della predicazione se non si realizza una ripresa della fede. Ne ha parlato con le parole più forti i1 22 dicembre scorso alla Curia, già allora tutta in febbre per le questioni interne che sarebbero poi venute alla luce con le tante fughe di documenti riservati.
Parlando dell'Europa il Papa in quell'occasione fece osservare ai suoi collaboratori «come le persone che vanno regolarmente in chiesa diventino sempre più anziane e il loro numero diminuisca continuamente; come ci sia una stagnazione nelle vocazioni al sacerdozio; come crescano scetticismo e incredulità». La diagnosi poi fu più severa della denuncia: «i1 nocciolo della crisi della Chiesa in Europa è la crisi della fede. Se a essa non troviamo una risposta, se la fede non riprende vitalità, diventando una profonda convinzione e una forza reale grazie all'incontro con Gesù Cristo, tutte le altre riforme rimarranno inefficaci».
A specchio dell'alta velocità di invecchiamento dei cristiani d'Europa, quel giorno il Papa pose la «gioiosa passione per la fede» che tanto l'aveva confortato quand'era stato in Africa il novembre scorso e quando in agosto aveva concluso a Madrid la festante Giornata mondiale dei giovani: «Lì (in Africa e tra i giovani ndr) non si percepiva alcun cenno di quella stanchezza della fede tra noi così diffusa, niente di quel tedio dell'essere cristiani da noi sempre nuovamente percepibile».
«Tedio dell'essere cristiani»: parole da memorizzare. Nell'enciclica Spe Salvi (2007), citando una «profezia» di Kant, Benedetto si era chiesto se l'umanità europea considerasse ancora «degno di amore» il cristianesimo. Tedio e disamore: sono le due punte acuminate della riflessione del Papa teologo sulla scristianizzazione dell'Europa. Pochi —immagino — hanno un sentimento più acuto della crisi della fede.
Questa dunque è l'idea benedettiana: una riforma della Chiesa attraverso il recupero della fede. Un recupero da realizzare «grazie all'incontro con Cristo»: la preghiera, la penitenza, la conversione. È per questo che ha indetto un Anno della Fede che partirà il prossimo ottobre, nel cinquantesimo dell'avvio del Vaticano 11 (1962-1965). E sempre in ottobre si terrà un sinodo sulla nuova evangelizzazione: cioè sulla necessità di rievangelizzare i Paesi di antica cristianità.
È singolare la fiducia nel Papa tedesco nel «nuovo modo di essere cristiani» proprio dei giovani e degli africani. Egli sa che il continente dove oggi la gente affolla di più le chiese è l'Africa e conosce le proiezioni degli studiosi che prevedono il sorpasso numerico dei cattolici africani su quelli europei nell'arco di 20-25 anni. Sa anche che già oggi il più gran numero di cristiani «attivi» nell'insieme del mondo non appartiene più alle Chiese storiche (cattoliche, ortodosse, anglicane e protestanti) ma alle Chiese pentecostali, o Chiese libere, o sette a matrice cristiana.
La sua reazione «impolitica» alla crisi lo spinge a guardare a forme entusiastiche, vitali, carismatiche, giovanili e africane di vivere la fede. Un esito sorprendente per un uomo così razionale. Ma ciò che sorprende merita di essere compreso.

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