Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di
pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste quando abbiamo detto
che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può
in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma di rimando sorge immediatamente
l'obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività?
Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti,
non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune oggettivo di più
alto livello?
È strano che certi teologi trovino difficile accettare la dottrina precisa e limitata dell'infallibilità pontificia, ma non abbiano problemi nel riconoscere de facto l'infallibilità a chiunque abbia una coscienza.
In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della soggettività come tale.
Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di Dio dentro di noi. Con questo concetto viene stabilito il carattere assolutamente inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi legge umana. L'esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l'uomo, da all'uomo una dignità assoluta.
Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria? Contraddice forse sé stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un'azione, anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro o addirittura esige da lui di compiere questa stessa azione?
Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi di coscienza individuali con la voce di Dio. La coscienza non è un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann.
Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come super “io”, come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che ci hanno formati e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal punto che essa non ci parla più esteriormente, ma dal più intimo di noi stessi.
In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sorgente reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un altro, una guida estranea in noi stessi. La coscienza non sarebbe allora un organo di libertà, ma una schiavitù interiorizzata dalla quale l'uomo dovrebbe logicamente liberarsi per scoprire l'ampiezza della sua reale libertà.
Organo, non oracolo
Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni della coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente.
Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto una educazione formale, reagiscono spontaneamente contro l'ingiustizia. Essi danno un «sì» spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli a crescere.
D'altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà o una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è stato appreso o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è diventata un senso interiore di ciò che è buono.
Qual'è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull'argomento: la coscienza è un organo, non un oracolo. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma essendo un organo ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola.
Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall'esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, che cioè possiamo esprimerci con il linguaggio. L'uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo diventa soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l'uomo è «un essere che ha bisogno dell'aiuto di altri per diventare ciò che è in sé stesso» (R. Spaemann).
Noi vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L'uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell'aiuto degli altri.
La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incontriamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l'uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza.
Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l'assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere.
In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla. La coscienza ha diritto al rispetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona la rispetta e ha per essa la cura che la sua dignità merita.
Il diritto della coscienza e l'obbligo di formarla.
Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di dominare l'utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa infine conseguire la propria validità.
Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza.
Sarebbe quindi semplicistico porre una affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo.
Che cosa c'è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazione? O è una alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole?
È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere esercitata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un'apertura in maniera consona alla gravita della questione.
Se io credo che la Chiesa ha le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina nella Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell'autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una risonanza interiore della sua parola all'interno della coscienza, ciò che significa qualcosa di più che una semplice dichiarazione occasionale di massimo livello.
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