1. La fede termina alle cose
Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà,
prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro
filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con
esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i
tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla
loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione
improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose[1].
San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo
in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non
terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli
enunciati, ma alla realtà[2]. I
Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non
si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione
d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che
uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del
formalismo”[3].
Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono
analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla
realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di
esprimere.
Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa
più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo
il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios,
consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la
volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e
la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad
accogliere termini per lui equivalenti, purché fosse chiaro che si
intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo
momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non
lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.
Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati
alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui
termini che a quello sui contenuti della fede. In anni
recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese
orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro
contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato
attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non
nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa
cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della
giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato
che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella
realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi,
diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione
di fede vissuta.
2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il
Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della
nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.
Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né
l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure
colui che lo conclude. Chi aprì il discorso ... sullo Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina
intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche
perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.
Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che
porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel
concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è
pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non
appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e
la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza,
ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.
Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si
trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello
di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella
piena divinità dello Spirito, usando espressioni equivalenti, come
l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto a essi.
Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel
concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono
l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi
nel credo.
Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli
attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli
che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito
Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”[4].
Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la
prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come
nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come
già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua
formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con
cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei
termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua
enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione
dello Spirito Santo.
Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non
scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed
è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi
oggi. A causa della nota questione del Filioque, la
pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al
problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre
soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come
professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei
Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito
Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e
alla vita contemplativa.
Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo,
per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè
dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della
Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium[5].
Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per
mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto
del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio
ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse
una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta
l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II
ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se
non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della
sua forza”[6]. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.
3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante
una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte
nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito
Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e
allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce
più chiaramente della prima, l’uguaglianza delle tre persone,
coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima
surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo,
la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per
giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli
eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.
Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di
Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di
mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia
della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia
dall’opera dello Spirito nella creazione.
“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene
all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa
perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre
che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio
che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito
che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo
Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita
appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”[7].
Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una
conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della
Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano
l’abisso”) egli osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza.
Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito,
ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere
come ‘mondo’ ”[8].
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos.
Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata
all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o
meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre
“è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che
continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal
caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione
all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla
novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso
che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa
evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia
della terra” (cf. Sal 104,30).
Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il
Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che
aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il
volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli
esseri alla perfezione mediante lo Spirito.
Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:
“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo
a opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito
secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie
per mezzo della grazia dello Spirito?”[9]
A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della
presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più
belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo
di recente si è cominciato a riprendere in considerazione[10].
Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e
nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che
si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con
il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu
realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu
tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò
quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli
(cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.
Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:
“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito?
Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli
apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato
secondo la diversità dei doni dello Spirito”[11].
Nell’Anafora che porta il nome di san Basilio - che l’attuale nostra
Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo
ha un posto centrale.
L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito
nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa
manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio - non sarà
assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati,
il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e
per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra
l’anima e lo Spirito[12].
4. L’anima e lo Spirito
San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia
della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo
interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni
singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e
l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito,
egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella
purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e
nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”[13].
Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo
riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e
lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:
“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l'anima, non è un
avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare
all'incorporeo corporalmente? — ma piuttosto consiste
nell'esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro
attrazione per la carne, giungono all'anima e la separano
dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci
si era impastati attraverso il peccato e tornati alla bellezza
naturale, come avendo restituito a una immagine regale l'antica
forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostarsi al
Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l'occhio purificato, ti
mostrerà in se stesso l'immagine dell'Invisibile. Nella beata
contemplazione dell'immagine, vedrai la indicibile bellezza
dell'archetipo. Per mezzo di lui si elevano i cuori, i deboli
sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla
perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni
macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E
come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce,
diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio,
così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo
Spirito; esse stesse divengono pienamente spirituali e rinviano sugli
altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose
future; la comprensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste;
le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza
con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la
somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”[14].
Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi
di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea
nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema
squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso,
in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla
base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo - la
contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo.
Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia.
Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita.
L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:
“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo
separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento
di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per
mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive.
Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di
Cristo per mezzo del battesimo”[15].
Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto
nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione
radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo
ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano
deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri
della carne, per avanzare nella vita nuova:
“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne;
invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello
Spirito. Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama
lo Spirito è vita e pace; infatti ciò che brama la carne è
inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e
neppure può esserlo; e quelli che sono nella carne non possono
piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla
carne per vivere secondo la carne; perché se vivete secondo la carne
voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del
corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san
Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è
all’origine di una delle metafore più universali della vita
spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:
“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua.
Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è
storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi
lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il
divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”[16].
Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha
ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità
alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere
un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Michelangelo, passeggiando in un cortile
di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e
fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un
improvviso lampo, disse ai presenti: "In questo masso di pietra è
nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori!". E si mise a lavorare
di scalpello per dare forma all'angelo che aveva intravisto. Così è
anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grezza,
con addosso tanta "terra" e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci
guarda e dice: "In questo pezzo di pietra è nascosta l'immagine del mio
Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me
in cielo!" E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci
pota (cf. Gv. 15,2)
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che
vengono dall'esterno, ma collaborano anch'essi, per quanto è loro
concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni
volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre
deserto:
"Se vogliamo essere completamente liberati, impariamo a spezzare la
nostra volontà, e così, poco a poco, con l'aiuto di Dio,
avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È
possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo
e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo
pensiero gli dice: 'Guarda là!', ma lui risponde al suo pensiero:
'No, non guardo!', e spezza la sua volontà"[17].
Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica.
Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: "Partecipa anche tu; di' quello che sai. Ma tu rispondi: "No!". E mortifichi l'uomo vecchio
… Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di
rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si
ricopre.
Finché si vive assecondando i desideri della carne noi
somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui
furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e
appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo
risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro
restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano
all’impresa.
5. Una mortificazione “spirituale”
C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in
ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita.
San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo
Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma
anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del
cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo
Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono
fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.
I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo.
Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in
questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per
la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza
dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”[18].
Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e
sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma
staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio
Nisseno. “È da questo punto – nota il Bouyer - che il
pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia,
prenderà il suo avvio”[19]. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.
Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio
sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che
mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa.
Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare
in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.
Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa:
in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come
Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e
unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei
tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola);
nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per
il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta
contro il male e guida nel discernimento del bene.
Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far
passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo,
dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza
della grazia.
Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.
O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.
Note al testo
[1] J.-P. Sartre, La Nausea, trad. ital, Milano 1984, p. 193 s.
[2] Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 1,a.2,ad 2.
[3] Cf. G. Prestige, God in Patristic Thought, London 1936, chap. XIII( trd. Ital., Dio nei pensiero dei Padri, Bologna, il Mulino, 1969, pp. 273 ss).
[4] Gregorio Nazianzeno, Oratio 31, 5.10; cf. anche Oratio
6: “Fino a quando terremo nascosta la lampada sotto il moggio e non
proclameremo a voce alta la piena divinità dello Spirito Santo?”
[5] Cf. Lumen gentium, 12.
[6] Giovanni Paolo II. “A concilio Costantinopolitano I”, in AAS 73, 1981, p. 521.
[7] Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 38 (PG 32, 137B); trad. ital. di E. Cavalcanti, L’esperienza di Dio nei Padri Greci, Roma 1984.
[8] Ambrogio, Sullo Spirito Santo, II, 32.
[9] Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39.
[10] J.D.G.Dunn, Jesus and the Spirit, London 1988.
[11] Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39.
[12] Ib. XVI, 40.
[13] Ib. XIX, 49.
[14] Ib. IX,23.
[15] Ib. XV,35.
[16] Plotino, Enneadi I, 9 (trad. ital. di V. Cilento, vol. I, Laterza, Bari 1973, p. 108).
[17] Doroteo di Gaza, Insegnamenti 1,20 (SCh 92, p. 177).
[18] Gregorio Nisseno, De instituto christiano (ed. W. Jaeger, Two Rediscovered Works, Leida 1954, p.46).
[19] L. Bouyer, La spiritualità dei Padri, Edizioni Dehoniane, Bologna 1968, p. 295.
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