Nell’attuale dibattito sulla natura propria della moralità e sulle
modalità della sua conoscenza, la questione della coscienza è
divenuto il punto nodale...
La coscienza vi è presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità.
In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un modello superato, “preconciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità, la quale attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più intimi e cerca in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini. Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema che dev’essere sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità.
E’ fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame di coscienza, o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti, se così fosse, ciò varrebbe a dire che non c’è nessuna verità, almeno in materia di morale e di religione, ossia nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo circostante e alla comunione degli uomini...
(La tesi che la coscienza morale sia infallibile) viene presumibilmente esposta per primo da J.G.Fichte: “La coscienza non erra mai e non può mai errare”, poiché è “essa stessa giudice di ogni convinzione, non conosce alcun giudice sopra di sé”. Essa decide in ultima istanza ed è essa stessa inappellabile (System der Sittenlehre 1789, III, §15; Werke, vol.4 Berlin, 1971, p.174)... Gli argomenti in contrario già formulati in precedenza da Kant, vennero approfonditi da Hegel per il quale la coscienza “come soggettività formale... è sul punto di rovesciarsi in male”.
Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza.
Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare, adatta solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale che la fede della Chiesa cattolica comporta. La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non è la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo sta a suo agio più nelle tenebre che nella luce; la fede non è un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la fede ad altri?
Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi ad essa. A tal riguardo è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo: la coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla verità, essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che, come minimo denominatore comune tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti, nella società e su quanto in essa è diventato abitudine.
Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro l’esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera da teatro”, come dice Görres. “Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler e Himmler o Stalin. Forse i padrini della mafia non hanno sensi di colpa, anche se probabilmente nascondono molti cadaveri in cantina insieme ai relativi sensi di colpa. Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.
Qualcosa di analogo, d’altro canto, possiamo trovare anche in san Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2,1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità, dell’unica verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Do a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato.
Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa orientale conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni economici che si sono creati. Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era, secondo lui, oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e a un pericolo mortale. In altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti e abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno.
Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora si prende la sua rivincita, è la vera colpa; una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.
A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita. Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale.
La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi. In molti ambienti oggi non ci si chiede più che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero, nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista, rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in un modo ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo; l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale. Abbiamo così raggiunto il punto veramente scottante della questione: Quando i contenuti non contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria che domina ogni cosa, sia esso rivoluzionario o reazionario. Questa è precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della somiglianza con Dio. Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”, nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. E’ proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.
Ciò significa che il primo, per così dire, ontologico livello del fenomeno della coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine, che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, non è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimento, così che colui che ne viene interpellato, se non è interiormente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco. Egli se ne accorge: “Questo è ciò a cui mi inclina la mia natura e ciò che essa cerca!”. Su questa anamnesi del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità e il diritto della missione. Il vangelo può, anzi, dev’essere predicato ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr. Is 42,4). Infatti la missione si giustifica, se i destinatari, nell’incontro con la parola del vangelo, ri-conoscono: “Ecco, questo è proprio quello che io aspettavo”.
Il papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal soggetto può essere solo una determinazione imposta dall’esterno. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un’antropologia della coscienza quale abbiamo cercato di delineare a poco a poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.
Il significato autentico dell’autorità dottrinale del papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il papa (N.d.R. Fa riferimento all’espressione del card J.H.Newman, contenuta nella lettera al duca di Norfolk: “Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per il papa”) perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede, che dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale.
Dopo queste considerazioni sul primo livello, essenzialmente ontologico, del concetto di coscienza, dobbiamo ora rivolgerci alla sua seconda dimensione, il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medievale venne designato con l’unico termine di “conscientia” (coscienza).
Su questo piano, il piano del giudicare (quello della “conscientia” in senso stretto), vale il principio che anche la coscienza erronea obbliga. Quest’affermazione è pienamente intelligibile nella tradizione di pensiero della scolastica. Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già aveva detto san Paolo (Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ciò nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione dell’anamnesi dell’essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, i criminali che agiscono con convinzione come Hitler e Stalin rimangono colpevoli. Questi esempi macroscopici non devono tranquillizzarci su noi stessi, piuttosto dovrebbero risvegliarci e farci prendere sul serio la gravità della supplica: “liberami dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13).
La ricerca estremamente chiara di I.G.Belmans, Le paradoxe de la conscience erronée d’Abélard à Karl Rahner, in Rev. Thom 90 (1990), pp. 570-586 mostra che questa è esattamente la posizione anche di san Tommaso. Belmans dimostra che la pubblicazione del libro di Sertillanges su san Tommaso nel 1942 ha dato inizio ad una molto diffusa falsificazione della dottrina dell’Aquinate sulla coscienza. Semplificando, la falsificazione consiste nel fatto che viene citato solamente l’articolo 5 (“Bisogna seguire una coscienza erronea?”) della Summa Theol. I-II q. 19, mentre viene del tutto tralasciato l’articolo 6 (“E’ sufficiente seguire la propria coscienza per agire bene?”). Ciò significa che a Tommaso viene ora attribuito l’insegnamento di Abelardo, che l’Aquinate, invece, si riprometteva invece di superare. Abelardo aveva sostenuto che coloro i quali avevano crocifisso Cristo non avevano peccato, poiché avevano agito per ignoranza. L’unico modo di peccare consisterebbe, invece, nell’agire contro coscienza. Le teorie moderne circa l’autonomia della coscienza possono rifarsi ad Abelardo, non a Tommaso.
La coscienza vi è presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità.
In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un modello superato, “preconciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità, la quale attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più intimi e cerca in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini. Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema che dev’essere sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità.
E’ fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame di coscienza, o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti, se così fosse, ciò varrebbe a dire che non c’è nessuna verità, almeno in materia di morale e di religione, ossia nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo circostante e alla comunione degli uomini...
(La tesi che la coscienza morale sia infallibile) viene presumibilmente esposta per primo da J.G.Fichte: “La coscienza non erra mai e non può mai errare”, poiché è “essa stessa giudice di ogni convinzione, non conosce alcun giudice sopra di sé”. Essa decide in ultima istanza ed è essa stessa inappellabile (System der Sittenlehre 1789, III, §15; Werke, vol.4 Berlin, 1971, p.174)... Gli argomenti in contrario già formulati in precedenza da Kant, vennero approfonditi da Hegel per il quale la coscienza “come soggettività formale... è sul punto di rovesciarsi in male”.
Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza.
Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare, adatta solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale che la fede della Chiesa cattolica comporta. La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non è la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo sta a suo agio più nelle tenebre che nella luce; la fede non è un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la fede ad altri?
Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi ad essa. A tal riguardo è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo: la coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla verità, essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che, come minimo denominatore comune tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti, nella società e su quanto in essa è diventato abitudine.
Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro l’esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera da teatro”, come dice Görres. “Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler e Himmler o Stalin. Forse i padrini della mafia non hanno sensi di colpa, anche se probabilmente nascondono molti cadaveri in cantina insieme ai relativi sensi di colpa. Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.
Qualcosa di analogo, d’altro canto, possiamo trovare anche in san Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2,1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità, dell’unica verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Do a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato.
Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa orientale conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni economici che si sono creati. Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era, secondo lui, oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e a un pericolo mortale. In altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti e abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno.
Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora si prende la sua rivincita, è la vera colpa; una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.
A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita. Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale.
La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi. In molti ambienti oggi non ci si chiede più che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero, nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista, rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in un modo ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo; l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale. Abbiamo così raggiunto il punto veramente scottante della questione: Quando i contenuti non contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria che domina ogni cosa, sia esso rivoluzionario o reazionario. Questa è precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della somiglianza con Dio. Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”, nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. E’ proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.
Ciò significa che il primo, per così dire, ontologico livello del fenomeno della coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine, che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, non è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimento, così che colui che ne viene interpellato, se non è interiormente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco. Egli se ne accorge: “Questo è ciò a cui mi inclina la mia natura e ciò che essa cerca!”. Su questa anamnesi del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità e il diritto della missione. Il vangelo può, anzi, dev’essere predicato ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr. Is 42,4). Infatti la missione si giustifica, se i destinatari, nell’incontro con la parola del vangelo, ri-conoscono: “Ecco, questo è proprio quello che io aspettavo”.
Il papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal soggetto può essere solo una determinazione imposta dall’esterno. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un’antropologia della coscienza quale abbiamo cercato di delineare a poco a poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.
Il significato autentico dell’autorità dottrinale del papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il papa (N.d.R. Fa riferimento all’espressione del card J.H.Newman, contenuta nella lettera al duca di Norfolk: “Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per il papa”) perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede, che dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale.
Dopo queste considerazioni sul primo livello, essenzialmente ontologico, del concetto di coscienza, dobbiamo ora rivolgerci alla sua seconda dimensione, il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medievale venne designato con l’unico termine di “conscientia” (coscienza).
Su questo piano, il piano del giudicare (quello della “conscientia” in senso stretto), vale il principio che anche la coscienza erronea obbliga. Quest’affermazione è pienamente intelligibile nella tradizione di pensiero della scolastica. Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già aveva detto san Paolo (Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ciò nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione dell’anamnesi dell’essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, i criminali che agiscono con convinzione come Hitler e Stalin rimangono colpevoli. Questi esempi macroscopici non devono tranquillizzarci su noi stessi, piuttosto dovrebbero risvegliarci e farci prendere sul serio la gravità della supplica: “liberami dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13).
La ricerca estremamente chiara di I.G.Belmans, Le paradoxe de la conscience erronée d’Abélard à Karl Rahner, in Rev. Thom 90 (1990), pp. 570-586 mostra che questa è esattamente la posizione anche di san Tommaso. Belmans dimostra che la pubblicazione del libro di Sertillanges su san Tommaso nel 1942 ha dato inizio ad una molto diffusa falsificazione della dottrina dell’Aquinate sulla coscienza. Semplificando, la falsificazione consiste nel fatto che viene citato solamente l’articolo 5 (“Bisogna seguire una coscienza erronea?”) della Summa Theol. I-II q. 19, mentre viene del tutto tralasciato l’articolo 6 (“E’ sufficiente seguire la propria coscienza per agire bene?”). Ciò significa che a Tommaso viene ora attribuito l’insegnamento di Abelardo, che l’Aquinate, invece, si riprometteva invece di superare. Abelardo aveva sostenuto che coloro i quali avevano crocifisso Cristo non avevano peccato, poiché avevano agito per ignoranza. L’unico modo di peccare consisterebbe, invece, nell’agire contro coscienza. Le teorie moderne circa l’autonomia della coscienza possono rifarsi ad Abelardo, non a Tommaso.
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