di Costanza Miriano
Prendere appunti alla presentazione di un libro è normale. Se il libro
lo si è scritto forse non è normalissimo. Se la presentazione del
proprio libro è la numero cinquanta o sessanta o forse più, allora la
cosa richiede l'intervento di un medico, ma di uno bravo.
Il fatto è che a introdurmi lunedì sera era don Fabio Rosini, il che peraltro è già un po' assurdo di per sé, perché quello famoso è lui. Per dire, è come se Robert De Niro salisse sul palco e dicesse: "signore e signori, ecco a voi il mio elettricista!". Comunque, così è successo, ed è stata per me una gioia immensa.
Responsabile del servizio alle vocazioni della Diocesi di Roma, particolarmente allenato a stanare le persone nei nodi decisivi della loro vita, don Fabio è stato superlativo in tutto, ma a mio parere ha dato il meglio parlando dell'infantilismo dilagante, quello che impedisce agli uomini e alle donne (cominciamo a chiamarli così, basta con ragazzi e ragazze) di oggi di abbracciare la propria vocazione al momento giusto, e con decisione. "Se mi chiedi a quaranta anni qual è la tua vocazione – ha detto – io ti posso rispondere al massimo qual era!"
L'infantilismo dilaga. Siamo cresciuti comodi, imbolsiti dai comfort, passiamo direttamente dal ciuccio al gadget tecnologico, e, istupiditi dalle comodità, tendiamo a dimenticare che la vita va data, va persa, va sacrificata, sennò ci marcisce tra le mani senza portare frutto.
San Francesco fece la sua sintesi davanti al crocifisso verso i 23, 24 anni, stessa età in cui Einstein elaborò la teoria della relatività. Non possiamo aspettare tutta la vita per fruttificare.
Ma a nessuno di noi piace perderla, la vita, e promettendoci benessere facile ci hanno cresciuti senza insegnarcelo. Siamo una generazione senza padri, perché è lui, il padre, che ci insegna a morire, mentre la madre insegna a vivere. Lo ricorda don Fabio, citando "Quello che gli uomini non dicono", il fondamentale libro di Roberto Marchesini. La madre dice il sì alla vita, il padre il no che ci insegna a morire.
Il padre, ancora, è il senso della realtà. E la realtà è che nella partita della vita non sempre sei tu che tiri la palla. Anzi, il servizio non ce l'hai mai, tu puoi solo rispondere.
Il senso della realtà è quello che ci guarisce, e ci converte. Dicono gli studiosi dell'età evolutiva che dopo i dodici anni un ragazzino dovrebbe smettere di dire "non è colpa mia", e assumersi responsabilità. Be', io conosco un sacco di gente che continua a dire "non è colpa mia" anche dopo avere abbondantemente triplato la boa dei dodici. Invece partire dal reale, e non volerlo più cambiare (il che non significa ovviamente essere passivi) ci fa incredibilmente bene. Ci ricorda che non siamo noi arbitri della realtà, che non siamo noi a potere né a dover dire come debbano andare le cose. E alla fine è anche molto rilassante sapere di non essere Dio.
Fonte: Blog di Costanza Miriano, 14/11/2012
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