Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 12 luglio 2014

Siamo terra buona



XV DOMENICA T.O.

      Guardando la nostra storia personale, se siamo onesti, non facciamo fatica a  riconoscere che, in momenti diversi, di durata più o meno lunga, siamo stati, di volta in volta, terreno sassoso, campo invaso dai rovi, strada arida, ma anche terra buona. Proprio per questo non ci sembra assurdo che si semini sugli spini, sul terreno roccioso e lungo la via. Scrive san Giovanni Crisostomo:
la cosa sarebbe assurda, se si trattasse della seminagione terrena che si fa in questo mondo: è invece assai lodevole il fatto, dato che si tratta delle anime e della dottrina divina. Verrebbe certamente ripreso il contadino che disperdesse in questo modo la semente. Il terreno roccioso non può infatti divenire terra buona, né la via può cambiare, e gli spini restano sempre tali. Ma non è così nell’ordine spirituale. Le pietre possono mutarsi e diventare terra fertile, la via più battuta può non esser più calpestata e aperta a tutti i passanti, ma divenire campo produttivo, e anche le spine possono sparire per lasciar crescere e fruttificare in tutta libertà il grano seminato” (Commento al Vangelo di Matteo).
     Se il Signore non continuasse a seminare in noi, anche quando sembra inutile, mai il seme penetrerebbe  nella terra buona, mai produrrebbe frutto.
     Per questo, la parabola, prima ancora di farci da specchio, per aiutarci a riconoscere quale terra siamo, ci svela l’instancabile pazienza di Dio nell’attendere il momento buono. Anche quando noi pensiamo di essere in ritardo, rimangono profondamente vere le parole del salmista: “Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (Salmo 90,4).
     Dio sa, che siamo terra buona. Il primo uomo è chiamato Adam, che deriva da ’adámâ, termine che significa “esser rosso”, “terreno rosso”; potremmo tradurre Adamo, con terroso.
     L'essere umano,  secondo l'Enuma Elish (antico poema Mesopotamico) è creato da una serie di terreni; sono argille, sono sabbie diverse. Marduk, il Dio trionfatore, e creatore, prende questa pasta debole, mortale, materiale e con essa costruisce la creatura. La Bibbia ripete questo simbolo per indicare la nostra fragilità, la parentela dell'uomo con la materia. Però ecco il salto: la Bibbia introduce un intervento particolare di Dio. Dio alita in questa pasta creata e lascia una traccia sua misteriosa.
     Invece il dio Marduk prende questa pasta e la miscela col sangue maledetto del dio Kingu, il dio ribelle, ucciso da lui. Secondo questa visione, di conseguenza, gli esseri umani, hanno sempre nelle loro arterie il sangue viziato, malato; l'uomo non può che essere portato al male, è quasi l'interlocutore negativo di Dio.
     “Non smettere mai, Signore, di seminare la tua parola, anche se adesso ci trovi stanchi e ottusi; continua ad aspettarci, magari aiutaci a non perdere troppo tempo; stimola il nostro cuore; però aspettaci”.
     Come possiamo capire se il seme ha attecchito nella terra buona?
     Dai frutti.
     Quando ci accorgiamo che la parola di Dio, che tante volte ci ha attraversati, senza lasciare nessun segno, si è fermata, ha trovato un solco, provocandoci e facendo nascere pensieri nuovi e  atteggiamenti nuovi. Quando il seme divino si innesta nella nostra terra, qualcosa inevitabilmente comincia a cambiare. Ci ritroviamo consolati, pur nella difficoltà dell’esistenza; la consapevolezza del peccato, porta alle lacrime del pentimento e alla concretezza delle scelte di conversione; il cuore duro, viene intenerito; ciò che prima sembrava incomprensibile, diventa lampante.
     Se siamo terra buona, perché non sempre il seme attecchisce?
     C’è indubbiamente chi non vuole aprirsi alla Parola; non sa che farsene. Molto più spesso, però, la causa di tutto è la distrazione. Ciò avviene quando nella vita concreta molte cose hanno una precedenza su Dio; quando al Signore viene riservato lo spazio rimanente, se rimane, dopo avere fatto tutto il resto. Ecco allora che quella terra di cui siamo impastati, seppure buona, non è ricettiva;  è come se fosse ricoperta da una crosta indurita, che non consente al seme di penetrare e attecchire.
     La crosta si rompe grazie a un’esperienza, a un incontro, a una gioia molto forte, ma anche al dolore e alla sofferenza che costringono a fermarsi e a non accontentarsi. Quando Dio trova anche una sola fenditura in quella crosta, subito vi si getta con il Suo seme ed ecco che allora, tutto germoglia.

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