Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

martedì 22 gennaio 2019

Catechesi a partire da Pinocchio


III

L’UOMO IN FUGA

Birba d’un figliolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancare di rispetto a tuo padre. Male ragazzo mio, male! Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare” p. 13.


     Il burattino, chiamato sorprendentemente a essere figlio, fugge dal padre e proprio la fuga è vista come la fonte di tutte le sventure; così come il ritorno al padre è l'ideale che sorregge Pinocchio in tutti i suoi guai.

     “Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto” (Gen 3,22ss).  
     Questo è il risultato della disobbedienza umana; l’essere umano  finisce fuori da ciò a cui era stato destinato.
     L’uomo se vuole essere e vivere come tale, non può che camminare per ritornare da dove è venuto. Il giardino di Eden è a Oriente. Non è un caso che in tutte le chiese nell’antichità l’altare fosse rivolto verso Oriente. La chiesa era come una nave (da qui la navata), che veleggiava, spinta dal soffio dello Spirito Santo, verso il Suo Signore.
     Scrive Benedetto XVI: "Seguendo san Paolo abbiamo visto … due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. …
     La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità" (Catechesi 03.12.2008).

     Noi parliamo di un peccato originale,           “Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? … Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. … "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio" (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. …
     Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una "seconda natura" che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: "questo è umano, ha un duplice significato. "Questo è umano" può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma "questo è umano" può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: ….
     La questione è: come si spiega questo male? …
    … la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
     Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. … E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte” (Benedetto XVI, Catechesi del mercoledì).
***
                                        

«Il Figliol prodigo
nella vita moderna»
1. La partenza
Jacques Joseph Tissot nasce a Nantes - città portuale - nel 1836. L’ambiente geografico e familiare lo segna profondamente. Si spiegano così il fascino per il mondo nautico, ricorrente scenario delle sue opere, e la cura estrema e raffinata dell’abbigliamento dei suoi personaggi (il padre dell’artista è un commerciante di stoffe, la madre una modista disegnatrice di cappelli). Anche l’attenzione per i soggetti biblici - che si manifesterà, in modo particolare e crescente, a partire dal 1862 - è espressione dell’educazione religiosa ricevuta: il padre di Jaques è un cattolico devoto, e farà studiare il figlio un collegio di Gesuiti. Seppure la fede di Tissot sarà per molti anni “burrascosa” (con scelte di vita in netta contrapposizione al suo credo), le sue radici non verranno mai meno, ed essa diverrà, infine, determinante non solo a livello personale, ma anche professionale, specie nell’ultima fase della sua carriera.

A Londra oltre a consolidare il suo successo artistico, incontra quella che sarà per lui musa ispiratrice e grande amore della sua vita: Kathleen Newton, giovane donna irlandese dal passato piuttosto tumultuoso. La scelta di avviare con lei una relazione - scandalosa secondo i canoni dell’Inghilterra vittoriana - determina un cambiamento nella vita sociale e mondana del pittore, sebbene non ne faccia totalmente un “isolato”. Nel 1882, Kathleen, malata di tisi, muore suicida.
Il colpo segna profondamente Tissot, che fa ritorno a Parigi. Qui avviene un’ulteriore svolta decisiva nella sua produzione artistica, ma anche - e soprattutto - sul piano interiore. Il pittore vive un periodo di crisi, si riavvicina alla fede cattolica e, a seguito di una forte esperienza, che lui definisce “mistica”, si converte definitivamente al cattolicesimo, tanto da decidere di dedicarsi ai soggetti religiosi (dipingendo prima una serie di quadri sulla vita di Gesù, e una serie di opere sull’Antico Testamento, poi) e di effettuare un viaggio in Palestina. Proprio a cavallo tra il 1880 e il 1882 (anno della svolta) Tissot torna a realizzare un tema già trattato, quello del Figlio prodigo, parabola anche della sua stessa esperienza di artista rientrato nella sua Patria, e di credente che riabbraccia la fede.
Tissot Muore a Chenecey-Buillon, nel 1902. 
IL CICLO DEL FIGLIO PRODIGO
Tissot dipinge il ciclo de «Il Figlio Prodigo nella vita moderna» («The Prodigal Son in Modern Life») nel 1880, riprendendo un tema ricorrente da ben vent’anni nella sua produzione pittorica. La diversità sta però nella chiave di lettura, con cui egli presenta, questa volta, il racconto evangelico. L’artista opta per un ciclo di quattro grandi tele [2], che “scansionano” - emozione dopo emozione, colpo di scena dopo colpo di scena - l’universo interiore dei protagonisti della parabola biblica attraverso le principali tappe della loro storia. La narrazione viene ambientata nell’Inghilterra dell’800 [3] e «mette al centro della scena l’eroe, un giovane inglese che, stanco delle comodità della casa paterna, va in giro per il mondo alla ricerca di distrazioni meno borghesi. Dopo mille disavventure (tra cui l’incontro con le danzatrici giapponesi ricordato Nel Paese straniero [4]) è costretto a fare ritorno» [5].
Il ciclo dei quattro dipinti a olio viene affiancato da una serie di acquerelli e di acqueforti. Queste ultime sono precedute da un’ulteriore immagine, un «Frontespizio» in cui l'artista rappresenta una Bibbia aperta sulla pagina iniziale della parabola del Figlio Prodigo, narrata nel Vangelo di Luca.
Il tema della ricerca
L’idea di Tissot è quella di fornire «un sommario per le acqueforti che seguono» [8]. Tuttavia, questo sommario diventa un tassello importante anche per la lettura del ciclo a olio.
Si tratta di una semplice introduzione? O non è, piuttosto, un “indice ragionato”, lo strumento di “decifrazione” delle scene successive? L’artista pone lo spettatore davanti a una serie di “indizi” per una “caccia al tesoro”? Fornisce una “mappa” spirituale per l’uomo in cammino? Il libro viene presentato come se stesse offrendo dei suggerimenti «a un devoto lettore alla ricerca di risposte nelle Scritture» [9]. Questa idea è visivamente indicata dall’angolino - piegato - della pagina sinistra (quella d’inizio capitolo), dai segnapagine disseminati sui fogli che precedono la Parabola, dal laccetto appoggiato - in basso a destra - sulle uniche parole pronunciate dal padre in tutta la storia e, ancora, dall’idea generale di un volume già utilizzato, “vissuto” dal lettore [10]. Le pagine successive al capitolo 15 di Luca, non presentano, tuttavia, “promemoria”. È dunque tra le righe di quella parabola, che il lettore deve trovare un responso ai suoi quesiti?
Tissot sembra voler indicare questa soluzione. E lo fa in modo del tutto originale, attraverso la collocazione della vicenda del Prodigo in un contesto sociale e storico contemporaneo. La parabola che offre al credente il ritratto del Padre misericordioso, fornisce risposte confacenti anche al lettore-osservatore “moderno”. L’opzione ambientativa di Tissot diviene quasi una parabola nella parabola. Sbalzando la narrazione dai tempi di Gesù a duemila anni dopo, il pittore sembra voler invitare l’uomo di ogni epoca a specchiarsi nella tormentata - ma a lieto fine - vicenda del Prodigo, che attraverso le ribellioni e le autosufficienze, i successi apparenti e i fallimenti reali, i facili entusiasmi e le brucianti delusioni, l’orgoglio irrazionale e giovanile, le ammissioni di colpa e della propria miseria, comprende in cosa consista la vera ricchezza, e decide di fare ritorno nella sua vera “casa”. Ma il quadro pone anche una serie di interrogativi ulteriori, e si offre come un invito all’introspezione, attraverso la psicologia del figlio maggiore e della donna - unica “libertà pittorica” che l’artista si concede - e quella dell’anziano padre, tratteggiate attraverso gesti, sguardi, silenzi.
Oggi come ieri, in sintesi, il ciclo di Tissot si presenta - oltre che come opera d’arte di pregevole valore - anche come l’espediente per un’articolata riflessione sulla misericordia umana e divina, sulla capacità dell’uomo di cambiare o meno (evidenziata dai diversi atteggiamenti dei due fratelli) e sull’immutabilità dell’amore vero, che si mantiene fedele nonostante i tradimenti, le incomprensioni, e le attese.
 1. LA PARTENZA
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre:  “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.  Ed egli divise tra loro le sue sostanze» (Lc 15, 11-12)
«La partenza» immortala, più che il momento della dipartita del figlio minore, l’atto simbolico di ciò che rappresenta la decisione del giovane: la sua proclamazione di indipendenza e autosufficienza che segna già il suo essere “fuori di casa”;l’incomunicabilità tra i personaggi, al di là del linguaggio verbale e del gioco di sguardi; il dolore di un padre; la chiusura interiore del figlio maggiore; un dramma familiare, che si consuma dentro gli animi, più che tra le mura di una casa, ma anche il senso della vera paternità: la capacità di lasciare liberi.
Un dramma di incomunicabilità
Dove, quando: la scena si svolge all’interno del «salotto di un commerciante marittimo: una scrivania zeppa di libri contabili e fatture. Conchiglie e una barca a vela modello decorano i suoi ripiani superiori. Sul tavolo il vaso, i fiori e le vettovaglie, ma al di sotto di esso, nella rappresentazione dei gattini neri. La presenza dei gatti neri, potrebbe rappresentare un piccolo enigma, o diventare, all'interno del dipinto, un elemento dal doppio significato. Se, infatti, nella pittura religiosa questo animale è normalmente associato «all'immagine del diavolo e dell'oscurità, in realtà al gatto sono state attribuite anche simbologie positive. Secondo alcuni, in quanto abile cacciatore, può essere paragonato a Gesù cacciatore di anime». Inoltre, a differenza di quanto accade in altri Paesi, in Inghilterra il gatto nero non è considerato come simbolo di sventura, ma viene ritenuto un portafortuna. In tal modo, la comparsa dei due micetti neri che giocano sotto al tavolo, potrebbe diventare tanto la metafora del peccato che il prodigo sta commettendo - ma di cui si renderà conto solo quando ritornerà in sé - così come pure del lieto fine della storia, quando il giovane ritroverà l'armonia con il Padre celeste e con quello terreno.

La casa si affaccia sulle rive del Tamigi e, probabilmente, l’episodio narrato ha luogo verso l’ora del tea, come si evince da tazze, bollitore e altri oggetti, disposti su un vassoio all’estrema sinistra del tavolo, e dalla fioca luce che ammanta il paesaggio all’esterno e la sala stessa. Sulla sedia all'estrema destra spicca, nella penombra, un bagaglio già pronto. Nessuno sembra aver voglia di bere. La scena lascerebbe presupporre che il figlio minore abbia comunicato la propria decisione quasi come un fulmine a ciel sereno, interrompendo, proprio sul nascere, un momento ordinario della vita di tutti i giorni: del vapore fuoriesce dal bollitore, che probabilmente contiene ancora la bevanda calda, e si è fatto appena in tempo a disporre sul tavolo solo una tazzina, prima che le parole del giovane raggelassero l’atmosfera. Tissot riesce a calare completamente la scena nel contesto vittoriano, in quanto la scelta del giovane «è motivata dalle usanze inglesi: la legge della primogenitura lasciava spesso i figli più giovani abbandonati alle loro sole forze, e l’opzione più frequente», in questi casi, era che essi s’imbarcassero per l’India. Viene così perfettamente trasposta la vicenda della parabola, in cui, nell'ambiente ebraico originale, «il tipo di famiglia prospettato è quello patriarcale. Il padre rappresenta l'autorità assoluta; poi viene il figlio maggiore che un giorno si porterà via i due terzi dei beni liquidi (Dt 21,17) e probabilmente l'intero patrimonio immobiliare. Che possibilità avrà il figlio più giovane di essere indipendente, di crearsi una vita tutta sua, quando il padre morirà e a lui toccherà soltanto un terzo dei beni e rimarrà senza proprietà? Meglio pensarci subito, romperla con il proprio ambiente e andarsene lontano».
Gli spazi della solitudine interiore
La tensione emotiva che permea la scena viene resa visibilmente palpabile attraverso una serie di elementi, in modo particolare da quelli prospettici. In primo luogo, la ripartizione degli spazi e la posizione dei personaggi. Le finestre formano una serie di angoli convessi e concavi che danno l’idea di due grandi blocchi spaziali: quello in cui si collocano il figlio maggiore e la donna accanto a lui (che ha le fattezze della compagna di Tissot e che taluni, nel quadro, identificano come la moglie del figlio maggiore) e quello in cui viene inserito il figlio minore. 
Il padre si pone quasi integralmente al di fuori di questi blocchi spaziali, come se fosse il personaggio più equilibrato della storia. Tuttavia, le sue mani tese verso il figlio minore simboleggiano la sua “paternità” che si mette in gioco, e il suo entrare, senza invaderlo, negli spazi dei figli. È un padre che lascia libertà, e che ama, nonostante il dramma di non essere compreso e, dunque, riamato. Il gioco di angoli spigolosi delle finestre sembra trascrivere le spigolosità interiori e caratteriali dei due fratelli, la cui distanza l’uno dall’altro è anche sottolineata dalla loro posizione all’interno del dipinto. Il figlio minore volge le spalle al fratello e alla donna. Non è interessato a dare loro alcuna comunicazione. Si rivolge (apparentemente) solo al padre. La lontananza tra i due fratelli è spaziale e interiore. L’uno si porta nell’angolo estremo della stanza, l’altro lascia (o non ha mai occupato) la sua sedia, per sedersi sul tavolo. La scena è permeata da una luce soffusa, ma calda. È come un riflesso del calore paterno, contrapposto all'indifferenza e alle tortuosità psicologiche ed emotive dei figli. Forse proprio questo calore farà riemergere nel giovane la nostalgia di casa, quando si troverà «Nel Paese straniero» e «nel bisogno» (Lc 15,14).
L’occhio, specchio dell’anima
Nessuno dei due fratelli guarda nella stessa direzione, ma entrambi portano lo sguardo “oltre”, fuori dalla casa, ossia là dove si “sentono” di essere o di voler andare. Il figlio maggiore sembra non curarsi di quanto sta accadendo, e osserva, sporto alla finestra aperta, quanto avviene in lontananza, sul fiume. In realtà, il suo volto esprime sentimenti di insoddisfazione, malinconia e una punta di irritazione per quel padre che asseconda il capriccio del figlio minore, ma non le sue richieste. È un anticipo di quell’indignazione che manifesterà espressamente alla fine del racconto lucano (Lc 15, 28). Tissot ha una visione d’insieme della parabola, e traccia un quadro netto della caratterialità di questo figlio più grande che si dimostra “immutabile” (in senso negativo) nel corso di tutta la storia, animato (e dominato) da un senso di indifferenza emotiva verso gli altri, preso da un senso del “dovere” che diviene per lui costrittivo e oppressivo, e che lo rende incapace di comprendere tanto il fratello, quanto suo padre. Questo elemento tornerà anche nei dipinti successivi del ciclo. La finestra aperta e lo sguardo sul mare, sembrano sottolineare con forza il suo desiderio di evasione che, tuttavia, non riesce a comunicare, a differenza di quanto sta facendo suo fratello.
Il figlio minore, in posizione “predominante” - in alto, sul tavolo - ha idealmente preso il posto di comando. Quello della sua vita, ma, in un certo senso - almeno secondo l’idea originale della parabola - anche quello all’interno delle regole familiari. Crede di avere un potere superiore a quello di tutti gli altri personaggi, di poter dettare lui le "condizioni". È colto in un atteggiamento difensivo e arrogante: mentre tiene saldamente il portafogli nella mano destra, arretra leggermente il braccio, rimanendo con lo sguardo fisso sul suo capitale, sulla “parte che gli spetta”, quasi per impedire al padre di riprendere quel denaro e di trattenerlo in casa. Il giovane non comprende che il gesto dell’anziano genitore non è espressione di avidità o di possesso egoistico. I due figli - ciascuno a modo suo - si sentono intrappolati, e i loro occhi riflettono ciò su cui fissano desideri, rinfacci e rivendicazioni.
Il padre, al contrario, porta lo sguardo sul figlio: non gli interessano i soldi, ma la persona. Anche i suoi gesti lo dimostrano: con la mano sinistra, infatti, sembra quasi accarezzare la mano del figlio in fuga, mentre con la destra, pare quasi tracciare una benedizione, accompagnandola con il suo sguardo mite. Con una mano vorrebbe invitare alla riflessione quel ragazzo irruento e irresponsabile, con l’altra lo lascia libero. Il suo cuore sta vivendo il dramma del vero amore che concede libertà.


Un uomo aveva due figli
«La parabola inizia con il ricordo di un uomo che aveva due figli. Il numero due indica il principio della diversità, perché in due non si è più da soli. Ma nel caso specifico del racconto di Gesù i due figli hanno un elemento comune che li unisce, almeno dovrebbe, nella loro diversità: il padre. Nel sentirsi suoi figli si dovrebbero riconoscere fratelli tra di loro. Per cui quel rapporto di diversità dovrebbe diventare, nell’unione col padre, una relazione di armonia nel riconoscersi fratelli. Così la parabola mette subito in chiaro quali siano i termini di riferimento, gli elementi essenziali: prima di tutto riconoscere Dio come padre, fondamento che determina il nostro rapporto di fratellanza. Infatti, ci si scopre fratelli gli uni degli altri quando si ha la capacità di riscoprirsi figli e, se non riconosciamo in Dio l’unico padre, difficilmente riusciremo a vedere nell’altro un nostro fratello» [18].
Un padre che vede
«Dio è Occhio, Dio è Vista» - scriveva J. Ratzinger. «Qui si cela anche una sensazione originaria dell’uomo, quella del sentirsi conosciuto. Egli sa che una segretezza assoluta non esiste, che la sua vita è sempre esposta allo sguardo di Qualcuno, che il suo vivere è un esser-visto. Questa sensazione di esser-visti può suscitare nell’uomo due reazioni opposte. Questo essere-esposto può turbarlo, farlo sentire in pericolo, un essere limitato nel suo stesso ambito vitale. Sensazione che può tramutarsi in irritazione e intensificarsi fino al punto da ingaggiare una lotta appassionata contro il testimone invidioso della sua libertà, della capacità illimitata del suo volere e agire».[1] La storia del Prodigo - e dunque anche il quadro - pone la sottile domanda, a ogni osservatore: “Ti lasci guardare da Dio Padre, o fuggi, per scappare da lui?”.
Dinanzi alla misericordia
     La scena iniziale del ciclo del Prodigo interpella il fruitore anche da un altro punto di vista. Venendo “immesso” nella scena, è come se lo si invitasse a scegliere con che occhio guardare il “dramma della misericordia” che si sta svolgendo dinanzi a lui.
     Si prova pietà per il padre? Dispiacere per quel figlio minore scapestrato che vuole fare di testa sua? Irritazione per la “debolezza” dell’anziano? Compassione per il maggiore o per il minore? Disinteresse totale? La partenza del Prodigo è la scena metaforica di ogni dramma in cui si “scontrano” libertà dell’uomo e amore di Dio; la metafora di ogni luogo e tempo in cui la rottura del peccato innesca quel percorso che può portare alla redenzione o alla caduta definitiva; la parabola di ogni situazione in cui l’amore viene confuso con la debolezza, e l’arroganza con la libertà. Il quadro diventa un invito all’introspezione per chi lo guarda. La scelta di questo padre anziano, che decide di accondiscendere alla richiesta del figlio, è già in sé un atto di misericordia, di un amore che non vuole trattenere con la forza.
Con chi si identifica lo spettatore? Con il figlio maggiore, simbolo di chi si sente figlio di Dio solo per uno strano senso del dovere, per il rispetto delle “regole”, per il timore di perdere quello che ha (seppure gli sembri poco)? Con il minore, che si sente figlio al solo scopo di ottenere l’eredità, ma non per dare e ricevere amore? Con la donna - l’unico elemento estraneo alla parabola lucana - che sembra incarnare l’etichetta, la coscienza sociale, le regole mondane, l’opinione critica “del pubblico”? O con il padre, il solo capace di un gesto di vera libertà del cuore? O, ancora, si identifica in quella figura a cui Gesù punta, intessendo la storia del prodigo, ossia il figlio - fratello tra fratelli - di un unico Padre?



2. NEL PAESE STRANIERO
«Il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio,  vivendo in modo dissoluto» (Lc 15, 13).

     «Nel paese straniero» è la seconda tappa pittorica nella storia del Figlio prodigo. Il minore viene colto nel momento apparentemente più felice della sua nuova vita. Pienamente libero e totalmente indipendente, il giovane raggiunge (o sta per farlo) l’apice illusorio della "sua" parabola, quel tratto “ascendente” di chi pensa di potersi realizzare allontanandosi da casa.
I colori della solitudine
Dove, quando: Tissot identifica il «paese lontano» (Lc 15,13 ) della parabola con il Giappone. La scelta non è casuale, e neppure semplicemente dettata dall’ampia distanza tra Inghilterra (“set” della prima scena) e il Paese del Sol Levante. Il quadro si fa portavoce della passione per l’arte giapponese che scoppia in Europa nella seconda metà del XIX secolo e che si manifesterà in varie correnti pittoriche (una su tutte l’Impressionismo), letterarie e musicali. Ecco allora che il giovane inglese protagonista della parabola «nella vita moderna», «invece che nell’India britannica, finisce in un ambiente, decadente, ciondolando e bevendo del sake stando seduto sul tappeto, in compagnia di un bohemien, in quello che sembra il quartiere d’intrattenimento di Yokohama».
L'ambiente "acquatico" - dato comune a tutto il ciclo - è presente anche in questa tela, e spiccano tutti i tipici elementi della moda del “Giapponismo” in voga all’epoca vittoriana: all’interno di una sala da thè, «geishe danzanti in kimono, lanterne rosse, set da thè, lampade esotiche, tavoli e padiglioni».
La luce naturale è ancora più fioca rispetto a quella del quadro precedente, mentre quella artificiale si fa più accesa, come più divampante è divenuta, per il Prodigo, la passione per i fatui piaceri mondani. Si è al tramonto del sole o al suo sorgere, dopo una nottata passata tra i divertimenti? La scelta luministica si rivela ideale per creare un sapiente gioco di chiaroscuri, attraverso i tipici colori del Paese del Sol Levante, che fanno risaltare maggiormente l’ambiente straniero in cui la scena viene ambientata, ma anche la solitudine interiore dei personaggi, a dispetto dell’apparente atmosfera festosa.
Gli spazi della solitudine interiore
Lo sfarzo del rosso delle lampade, il candore argenteo dei kimono impreziositi da decori floreali e il biancore dei ventagli sembrano stridere con il “grigiore” dell’abbigliamento tipicamente occidentale del protagonista e del suo amico. Se lo spettatore ha l’impressione di osservare una sorta di arazzo variopinto - che affascina lo sguardo per il suo incanto cromatico - è pur più evidente, proprio per questi sapienti contrasti creati a tavolino dal pittore, l’essere “straniero”, quasi “fuori posto” del giovane che ha abbandonato la sua casa.
     La tela, nell'offrire l'idea di un ambiente festoso, sembra concorrere a esaltare la bellezza femminile, ma in realtà mira a sottolineare sempre più lo stato di decadenza in cui il giovane protagonista sta sprofondando.
L’occhio è lo specchio dell’anima
     Nel calare la scena in un ambiente giapponese, Tissot - oltre che dall’interesse per il mondo nipponico - è mosso anche da un  intento dissacratorio (già presente in altre sue opere) nei confronti del «puritanesimo vittoriano». Nella tela si fa strada la "denuncia" della morbosità con cui la figura femminile viene osservata dalla società contemporanea, in particolare dal mondo maschile [9]. In tal modo, l'artista riesce a rendere l’idea del degrado morale (oltre che dello sperpero economico) cui va incontro il giovane della parabola, tanto più che la figura della geisha, nel mondo occidentale era - ed è - spesso erroneamente scambiata per una donna di facili costumi.
Nei volti dei personaggi non si palesa neppure un guizzo di felicità. Il giovane protagonista è colto nell’atto di brindare - forse per l’ennesima volta - ma i suoi occhi sono spenti e insoddisfatti. La sua solitudine interiore (probabilmente ancora soltanto inconscia) è ulteriormente sottolineata dal dettaglio della giovanissima geisha - quasi una bambina - che, pur stando al suo fianco, viene ritratta con gli occhi socchiusi e lo sguardo stanco, colta da noia o stanchezza. La tanto agognata indipendenza economica e decisionale, così fortemente desiderata dal ragazzo, si sta trasformando in un consumismo senza sentimenti, in un investimento senza interessi, in un ingabbiamento interiore che rischia di decretare la fine di ogni libertà.

3. IL RITORNO
«Ritornò in sé e disse:  “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!  Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò:  Padre, ho peccato contro il Cielo e davanti a te;  non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.  Trattami come uno dei tuoi salariati.  Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide,  ebbe compassione, gli corse incontro,
gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15, 17-19)
«Il ritorno»  rappresenta il momento clou della parabola. Tutto viene descritto in un abbraccio. Intenso, drammatico, mozzafiato. È più che un semplice rientro tra le mura di un edificio. Il Prodigo ha finalmente compreso che la vera casa dell’uomo non è fatta di mattoni, denaro, divertimenti, ma dello sicurezza dello "stare a casa"; che la dignità della persona non si “costruisce” né si mantiene nella solitudine, ma nella relazione; che la realizzazione personale non sta nello spendere, ma nel condividere; che la solidità non consiste nell’ergere muri, ma nell’abbatterli.
Superare la solitudine
Dove e quando: la scena si svolge, ancora una volta, sulle rive del fiume, nella luce delicata dell’alba o, più probabilmente, della sera. Lo spettatore viene calato nel concitato clima di uno sbarco. È appena approdata una nave, carica di bovini e maiali. In fondo al pontile, un uomo con un bastone cerca, con fare minaccioso, di guidare gli animali, mentre un altro li spinge. Proprio alle spalle del Prodigo, si consuma una scena similare. Così come nella tela precedente, anche in questa lo spettatore è immerso in un contrasto significativo: da un lato grida, grugniti di maiali, vociare d'altri passeggeri, dall’altro l’abbraccio, nel silenzio, tra padre e figlio. Da un lato la forza bruta della violenza, dall'altro la mite - ma non per questo debole - potenza dell'amore.
Gli spazi della solitudine interiore
Il prodigo ha viaggiato in compagnia delle bestie stivate nella nave, quasi animale tra loro nel degrado economico e morale sperimentato nel suo tentativo di emancipazione. Tissot ricorre a questo espediente per realizzare, all’interno di una sola scena, un riassunto di ciò che accade tra «Nel paese straniero» e «Il ritorno». È come un sommario degli eventi - ben conosciuti dal lettore della parabola - che hanno spinto il giovane a prendere la sua decisione di ritornare da suo padre: il suo trovarsi «nel bisogno» (Lc 15,14) e il suo ultimo tentativo di autonomia, sottolineato, nel Vangelo, dalla pericope «andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i suoi porci» (Lc 15,15). Il ragazzo aveva finito - forse ancora inconsapevolmente - con il marcare la sua totale perdita di dignità nell’equipararsi, in un certo senso, a quegli animali impuri per gli ebrei: «avrebbe voluto saziarsi con le carrube dei porci» (Lc 15,16).
Ma la "discesa" del giovane non era finita qui. Altri esseri umani - altri uomini come lui - lo avevano spinto ancora più in basso, con la loro indifferenza e mancanza di solidarietà: «ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16). È qui che il Prodigo aveva vissuto il suo ultimo e definitivo “spazio” della solitudine. In terra straniera-pagana e in mezzo a gente straniera-pagana, considerato finanche meno di un animale. Il suo isolamento umano e spirituale si era fatto totale. Toccando il fondo della completa privazione di dignità, egli aveva fatto ritorno in se stesso, scoprendosi uomo, figlio, creatura amata e ancora una volta affamata, non soltanto più di cibo, ma anche e principalmente di amore. Tale presa di coscienza lo aveva portato a “rivendicare” ciò che egli “era" da sempre. Da qui il suo desiderio di ritornare da colui che lo aveva già “conosciuto”, amato. In questa prospettiva, il suo viaggio di ritorno, pur se compiuto in mezzo ai porci, non era più un permanere o un vagare in uno spazio di solitudine, bensì di comunione: ritrovata con se stesso, sperata con il padre. Il taglio prospettico del quadro è simile a quello utilizzato da Tissot in «Nel paese straniero». Il punto di fuga corre verso l’estrema sinistra, fuori dalla scena dipinta. Tuttavia, qui il pavimento appare leggermente irto, come a rendere simbolicamente visibile il percorso di “risalita” del Prodigo e l’apparente “abbassarsi” del padre per riabbracciare, riaccogliere suo figlio. La luce che inonda solo una parte del pontile sembra evidenziare il tragitto che il giovane ha compiuto verso suo padre, ed è quasi come un faro che conduce l’occhio verso i piedi del ragazzo e verso le sue gambe piegate (metafora di umiltà, ammissione di colpa, richiesta di perdono e, dunque, di amore?).
Sull’estrema destra del quadro, in un angolo angusto, compaiono il figlio maggiore e sua moglie. Si tratta di un interessante espediente narrativo adottato dal pittore. Nella parabola, infatti, il fratello maggiore non assiste al rientro del minore, venendone al corrente soltanto al momento del banchetto organizzato da suo padre per festeggiare l'evento. Collocando già ne «Il ritorno» il più grande dei due, Tissot ne tratteggia in maniera più evidente la psicologia, accentuando inoltre la drammaticità della scena. Avvolti nei loro cappotti neri, quasi bardati a lutto, il maggiore e la donna accanto a lui osservano la scena con disprezzo.
L’occhio è lo specchio dell’anima
- Il figlio maggiore e sua moglie
Il figlio maggiore, a testa alta e con le mani in tasca, serra in bocca uno stuzzicadenti (quelli di epoca vittoriana avevano una foggia particolare ed erano inseriti in un supporto metallico); la donna al suo fianco porta le mani al viso, in un impeto di stupore che la travolge. Si tratta di meraviglia per il sorprendente gesto dell’uomo anziano, che la fa prorompere in un singulto, lasciandola letteralmente “a bocca aperta”, oppure la scuote e la disgusta la condizione di estrema indigenza in cui si è presentato il figlio minore? La tracotanza del maggiore rimarca che quanto accade proprio ora, sotto i suoi occhi, è fuori dalla sua comprensione, dai suoi schemi, dalla sua idea di giustizia e di etichetta: suo fratello ha meritato di cadere così in basso, perché ha violato le "regole del gioco".
In realtà, l’espressione glaciale e di distaccata superiorità dell'uomo e quella stupita della donna al suo fianco sembrano essere le due facce di una stessa medaglia. Entrambi esprimono fin d’ora quello che si evincerà pienamente alla fine della parabola: «all’atteggiamento misericordioso del padre, simbolo della misericordia divina, si contrappone nel figlio maggiore l’atteggiamento dei farisei e degli scribi che si lusingano di essere “giusti” perché non trasgrediscono alcun comandamento della legge». La loro idea di amore è lontana anni luce da quella del "padre misericordioso".
- Il padre e il figlio minore
     Padre e figlio sono come immersi in un’altra dimensione. Spiccano in primo piano, in una sorta di tridimensionalità che - a differenza della resa piatta dei due personaggi in abiti neri - sembra voler farli balzare fuori dalla tela.
La corsa del padre - un padre che non aveva smesso di attendere quel figlio in arrivo (e che Luca descrive in 15,20: «quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò») - viene resa da Tissot attraverso il dettaglio del cappello caduto in terra e che sembra ancora in volo, prima di toccare il pavimento di assi; per mezzo della posa delle gambe ancora piegate, come quella di chi si arresta improvvisamente dopo una corsa; tramite le falde del cappotto che si incollano addosso all'anziano, per effetto del contraccolpo.
     Il figlio minore si è letteralmente gettato ai piedi di suo padre. Nel ritrarlo inginocchiato dinanzi a lui, Tissot rende il senso del “peso” interiore che ha gravato sul suo cuore nel corso della travagliata "fuga" da casa, ma anche quello della liberazione per essersi disfatto di quella zavorra che gli impediva di essere uomo, figlio, fratello, amato. Il ragazzo, per quanto rivestito esteriormente di abiti lerci e poco alla moda, è ammantato di una compostezza e di una dignità interiore che ne trasfigura tutta la persona.
Il suo volto quasi scompare tra le braccia dell’anziano genitore. A occhi chiusi si lascia inondare dal flusso dell’amore paterno. Ha trovato la sua sicurezza. Non ha bisogno di posare lo sguardo su nulla. Può fidarsi “ciecamente” di colui che l’ha accolto. Può sentirne il calore senza bisogno di parlare. Non è necessario proclamare il suo discorso, preparato nel momento della prova. Il padre ha già capito. Il figlio ha già dimostrato. Nelle resa pittorica delle mani del giovane, Tissot sembra citare le mani del padre del Prodigo della famosa opera di Rembrandt. Questa volta è il figlio a esprimere la potenza del suo vissuto e dei suoi sentimenti attraverso le mani: con una sembra carezzare il padre, con l'altra si stringe vigorosamente a lui. In quelle mani c’è tutto il percorso di un giovane uomo che ha imparato - a sue spese - a maturare, e che ha metabolizzato, contemporaneamente, la forza necessaria per rialzarsi e la tenerezza per chiedere perdono, per amare e per lasciarsi amare. Il padre accompagna la sua accoglienza - possente e delicata - a una "carezza dello sguardo" su quel figlio ritornato. In realtà, non ha mai smesso di osservarlo, di "inseguirlo", di attenderlo. 
I


[1] Benedetto XVI – J. Ratzinger, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, 2011, pp.11-12.

[2] Papa Francesco, Omelia, 4 giugno 2015.
[3] J. Ratzinger - Benedetto XVI, Progetto di Dio. Meditazioni sulla creazione e la Chiesa, Marcianum Press, 2012, pp. 116-118.
[4] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, 2009, p. 53
[5] Ibid. 57
[6] Ibid. 58
[7] Ibid. 61
[8] Ibid. 61
[9] Ibid. 75-77

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