di Marina Corradi da Avvenire
Un uomo di 79 anni in una sera d’autunno parte da Roma. È un venerdì, ma non ha in programma un weekend.
Va verso la Svizzera. Lo immaginiamo su un Frecciarossa che corre a
duecento all’ora, così veloce che le case e i campi sono forme quasi
indistinguibili, fuori dal finestrino. Il viaggiatore, benché anziano, è
un bell’uomo; ha occhi chiari, e l’aria di chi ha letto e studiato, e
scritto, per tutta la vita. È solo e assorto, fra le chiacchiere dei
passeggeri, fra i trilli dei cellulari che squillano.
Oltrefrontiera lo aspetta un medico suo amico. Già una volta
c’è andato, ed è tornato. Non ha saputo decidersi, non è stato capace di
dire: voglio morire. Ma questa volta l’uomo è più determinato.
Con la morte della donna che amava è sprofondato in una depressione
buia, impenetrabile. Quel lutto ha trascinato con sé tutto, tutta una
vita di passioni e battaglie.
Lucio Magri, uno dei fondatori del Manifesto, comunista
eretico scomunicato dal Pci ai tempi della Primavera di Praga, maestro
di pensiero della sinistra italiana, è stanco. Ci sono giovani
che lo guarderebbero con deferenza, come uno che ha combattuto per
intero la sua battaglia. Che vita piena, per quel ragazzo precocemente
sceso nell’agone politico: nella sinistra Dc a vent’anni, poi comunista,
ma presto intollerante dell’acquiescenza del partito sui carri armati a
Praga, e radiato.
Poi l’avventura di un giornale che vuol essere libero. Un passionale,
uno che ha lottato, che per cinquant’anni ha condiviso la sua battaglia
con fedeli amici. Ha scritto un libro, dicono, importante, una
storia del Pci italiano. Titolo, «Il sarto di Ulm», dall’apologo di
Brecht su un sarto secentesco che credeva d’avere inventato la macchina
per volare, e si schiantò giù dal campanile della città. Che
titolo amaro, per una storia intrecciata con la propria biografia. Quasi
la storia di una speranza naufragata. Mentre nel mondo che gli è
cresciuto attorno Magri sembra spaesato: come se il tempo del Grande
Fratello, del chiasso mediatico, smentisse malamente ciò in cui uno come
lui ha creduto.
E su quel treno su cui lo immaginiamo è così solo. Le case, le città passano via veloci e irriconoscibili. Ci sono solitudini impenetrabili anche agli amici di una vita. Gli dicono: «Non sei contento, che ora traducano il tuo libro in inglese?». Ma lui è lontano, e ogni successo gli pare senza senso. Lei non c’è più; e a quasi ottant’anni età e dolore possono coagularsi, e travolgere. Perché dalla depressione ci si può curare, ma dal lutto, dal fallimento delle proprie speranze, è difficile.
Può venire un tempo, con la vecchiaia, in cui tutti i sogni di un uomo sembrano un mucchio di cenere. Il treno va, il viaggiatore tace, già così distante dalle parole spensierate di chi gli è attorno.
Non sappiamo del suo sbarcare in Svizzera, nel freddo di novembre, né se c’era qualcuno, ad aspettarlo. Una clinica, infermiere gentili, passi discreti nei corridoi. Potrebbe tornare indietro, ancora. Ma quel dolore addosso fa più paura perfino della morte. Il lunedì chiama Roma: ho deciso, dice. Poi una telefonata annuncia agli amici che, davvero, è finita.
E su quel treno su cui lo immaginiamo è così solo. Le case, le città passano via veloci e irriconoscibili. Ci sono solitudini impenetrabili anche agli amici di una vita. Gli dicono: «Non sei contento, che ora traducano il tuo libro in inglese?». Ma lui è lontano, e ogni successo gli pare senza senso. Lei non c’è più; e a quasi ottant’anni età e dolore possono coagularsi, e travolgere. Perché dalla depressione ci si può curare, ma dal lutto, dal fallimento delle proprie speranze, è difficile.
Può venire un tempo, con la vecchiaia, in cui tutti i sogni di un uomo sembrano un mucchio di cenere. Il treno va, il viaggiatore tace, già così distante dalle parole spensierate di chi gli è attorno.
Non sappiamo del suo sbarcare in Svizzera, nel freddo di novembre, né se c’era qualcuno, ad aspettarlo. Una clinica, infermiere gentili, passi discreti nei corridoi. Potrebbe tornare indietro, ancora. Ma quel dolore addosso fa più paura perfino della morte. Il lunedì chiama Roma: ho deciso, dice. Poi una telefonata annuncia agli amici che, davvero, è finita.
E ora forse qualcuno vorrà usare la storia di un uomo come una
bandiera, come il vessillo di un 'diritto' a morire. Diranno: sapete
quanti vecchi sconosciuti, soli, magari malati, farebbero ciò che ha
fatto Magri, se la legge lo consentisse? L’ansia di aiutare a morire sembra la declinazione post moderna della carità: appare compassionevole, e pietosa.
Noi, però, continuiamo a credere che carità è aiutare a vivere. È stare accanto a un malato grave, o al più solo dei vecchi in un ospizio. Testimoniando con le nostre povere facce di uomini che non siamo soli, e non siamo polvere.
E di questa tragica storia ciò che ci colpisce non è tanto la
determinazione dell’ultimo giorno, ma l’essere, la volta precedente,
Magri tornato indietro. Come incapace di dire spontaneamente sì alla
morte, come se questo contraddicesse una umana natura. Ci colpisce e ferisce quel giorno in cui quell’uomo tornò indietro, come cercando, vanamente, ancora.
© Avvenire
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