Nei suoi Colloqui con Hitler, Hermann Rauschning, che nel 1933-34 era
presidente del senato della libera città di Danzica, riferisce la seguente
dichiarazione del dittatore fatta in sua presenza: “Io libero l’uomo
dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche
e umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza e morale, e dalle
pretese di una libertà e autodeterminazione personale, di cui ben pochi
possono essere all’altezza”.
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva
essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà
dalla coscienza. Del tutto affine è quanto Göring dichiarò
allo stesso autore: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza si
chiama Adolf Hitler”. La distruzione della coscienza è il vero
presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza,
esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio
umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto
all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo
l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi
della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge
l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo
la sua signoria garantisce la libertà...
E’ certamente possibile che sotto il concetto di coscienza si insinui
come la canonizzazione di un super-io, che blocca l’uomo nella sua realizzazione.
Il richiamo assoluto rivolto alla persona nella sua responsabilità è
allora coperto e sopraffatto da un sistema di convenzioni che viene esibito
falsamente come voce di Dio, mentre non è in verità che la voce
del passato, la cui paura impedisce il presente. La coscienza può diventare
anche un alibi per la propria ostinazione e indocilità, quando una caparbia
incapacità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà
alla voce interiore. La coscienza diventa allora il principio di un egoismo
soggettivo che si pone come assoluto, allo stesso modo in cui, viceversa, può
diventare il principio del passaggio dall’io a un “sì”
impersonale o a un io estraneo. In questo senso il concetto di coscienza ha
bisogno di costante purificazione, e la pretesa della coscienza come pure il
richiamo ad essa hanno bisogno di lealtà e di prudenza, consapevole dei
possibili abusi di grandi valori quando la si chiama in gioco troppo in fretta.
Chi ha in bocca con troppa facilità la parola “coscienza”
si rende sospetto in modo simile a coloro che pronunciano banalmente e a ripetizione
il santo nome di Dio, dunque da idolatri e non da veri adoratori. Ma la vulnerabilità
della coscienza, la possibilità dell’abuso non possono cancellarne
la grandezza, Reinhold Schneider ha detto: “Che cosa è la coscienza
se non la consapevolezza della nostra responsabilità davanti alla totalità
della creazione e davanti a chi l’ha creata?”. Coscienza significa,
detto molto semplicemente, riconoscere l’uomo, se stesso e l’altro
da sé come creazione e rispettare in quest’uomo il suo creatore.
Ciò definisce il confine di ogni potere e gli indica a un tempo la direzione.
Nessun commento:
Posta un commento