XV DOM. T.O.
“Il
Signore disse a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so.
Sono forse io il custode di mio fratello?». Oggi Gesù risponde con grande chiarezza a quell’affermazione
di Caino: “Si, tu sei custode di tuo
fratello”.
Attenzione però, prima di fissare lo sguardo su di noi e su ciò che
dobbiamo fare, contempliamo il Samaritano che, non è uno a caso. Di lui ci
viene detto che, “vide e ne ebbe compassione” (Lc 10,33). Perdonatemi questo
riferimento al greco, ma ci è necessario per capire. Nel Nuovo
Testamento, il verbo “avere compassione”
(splangkhnizomai), viene usato undici
volte da Gesù[1]:
esso è attribuito due volte a Dio (Mt 18,27, la parabola dei due servitori; Lc
15,20 parabola del figlio prodigo); una volta al buon Samaritano (Lc 10,33); per
il resto riguarda Gesù (Gesù prova compassione quando incontra il lebbroso (Mc
1,41); la vedova che ha perso il figlio (Lc 7,13); i due ciechi di Gerico (Mt
20,34); le folle (Mt 9,36; 15,32).[2]
Quel Samaritano allora non è altro che Gesù, il quale “pur essendo di natura divina, non considerò
un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma umiliò stesso”; è Dio che
si è incarnato, per andare in cerca della pecora smarrita, di Adamo ed Eva
usciti da Eden. Quell’uomo ferito lunga la strada, è ogni uomo che, scende da
Gerusalemme a Gerico. Sembra un’indicazione da nulla, ma se facciamo attenzione
scopriamo qualcosa di importante: Gerusalemme è la città santa per eccellenza,
il luogo della presenza di Dio ed è a 754
m s.l.m, mentre Gerico è 280 m sotto.l.m,
il dislivello tra le due città è di circa mille metri. Quell’uomo, allora, è
ogni uomo che per qualche ragione, sprofonda, si perde ed è attaccato e ferito:
Dio va a cercarlo.
Gesù è il volto di Dio; guardando Lui, vediamo il Padre, così noi
sappiamo cosa prova Dio per noi, anche quando ci “perdiamo” e la vita ci ferisce;
non sta a guardare, ma prova compassione.
A questo punto entriamo in gioco tutti noi, non solo come uomini e donne
feriti, ma anche come mediatori della compassione divina. Il Samaritano dopo
avere fatto la sua parte, ha accompagnato il ferito all’albergo, in greco è
detto pandochéion, termine che
letteralmente significa “il luogo che
accoglie tutti”; analogamente l’albergatore (pandochéus) è indicato come l’onni-accogliente.
Quest’albergo non è altro che la Chiesa, ossia ognuno di noi e le nostre
comunità di vita (le famiglie, le parrocchie, i movimenti, i conventi, ecc …).
Noi non possiamo permetterci il lusso di essere creature solamente religiose, come
il sacerdote e il levita, cioè gente che crede in Dio, ma non si lascia umanizzare
da Lui. Quei due uomini, pur provenendo da Gerusalemme, dove erano stati certamente
al tempio a celebrare Dio, hanno visto, ma sono passati oltre;[3]
non si sono lasciati toccare dalla sofferenza di quell’uomo. Questo non ha
senso. Quando Gesù giunge, non può trovare la porta dell’albergo chiusa.
La Chiesa è il corpo di Cristo, di cui Lui è il capo e noi le membra; a
Essa, Dio ha affidato il ministero di renderLo presente qui e ora, dicendo ciò
che Lui ha detto, ma soprattutto facendo ciò che Lui ha fatto. Non per niente al termine di questo dialogo con il
dottore della Legge, Gesù parla del Samaritano, come di colui che “ha fatto misericordia”. Alla Chiesa è
affidato il compito fondamentale di umanizzare il mondo tramite il Vangelo. Io
sono la Chiesa; Tu sei la Chiesa. Ricordiamo allora le parole di Gesù: “Davanti a
lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come
il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra
e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua
destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno
preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi
avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e
mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero
in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno:
“Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o
assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero
e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto
malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro:
“In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che
saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno,
preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non
mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero
straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in
carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno:
“Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o
malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà
loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di
questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al
supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (Mt 25,32ss).
[1]
Il verbo è usato solo nei Vangeli
di Matteo, Marco e Luca e in nessun altro luogo nel Nuovo Testamento.
[2]
La parola “misericordia”,
in arabo (rahmah) e in ebraico (rahamim), ha la stessa radice della
parola “grembo”, in arabo (rahm) e in
ebraico (rehem). Il termine deriva
dalla parola “splangkhne” che
letteralmente significa interiora o
viscere.
[3]
In greco il verbo adoperato
due volte è un composto significativo: antiparérchomai
indica infatti un movimento “a fianco” (pará), ma “dall’altra parte” (antí). Gli passano accanto, ma dall’altro lato
della strada, per non entrare in contratto.
Nessun commento:
Posta un commento