Da un articolo del 2014 di Alberto Brambilla de "Il Foglio"
Molti sgranano gli occhi nell’apprendere da un recente
rapporto dell’agenzia di rating Moody’s che il costante e sempre
crescente invecchiamento della popolazione graverà sul pil globale
negli anni a venire.
Nel 2020 il 20 per cento della popolazione
avrà più di 65 anni in tredici paesi del mondo,
non più solo in
Italia, Germania o Giappone, com’è noto. E anche i paesi
emergenti, finora demograficamente tonici, come Thailandia, Russia,
Cile, Cina, Brasile avranno più “capelli bianchi” di oggi. Ergo,
dice Moody’s, la crescita globale rallenterà dello 0,4 per cento
nei prossimi cinque anni e dello 0,9 tra il 2020 e il 2025. In
termini pratici lo smottamento del pil deriva dalla riduzione della
popolazione attiva, dell’attività economica, del risparmio e degli
investimenti. Questo, specularmente, si tradurrà in un aumento della
spesa previdenziale, del debito pubblico, della relativa spesa per
interessi. I governi non troveranno rimedio migliore che aumentare le
tasse. Ma non è lo stesso corso della crisi economica in atto? La
“transizione demografica” lavora l’economia ai fianchi da
vent’anni come un pugile implacabile. E allora perché stupirsi ora
visto che è stata il terreno di coltura della crisi peggiore dagli
anni Trenta?
Ettore Gotti Tedeschi, banchiere ed
economista che ha indagato gli effetti del crollo demografico su vari
aspetti della società e dell’economia, sostiene da tempo che la
crisi del 2008 si trascinava da quindici anni, ma che la sua genesi
risale alla fine degli anni Settanta quando è cominciato il crollo
delle nascite. “Se domandi a un consesso di economisti cosa l’ha
causata, risponderanno il debito, i derivati, il boom della finanza.
Sbagliato. Sono state tutte conseguenze e soluzioni errate per
correggere un errore precedente: il crollo del pil determinato dal
crollo della popolazione che è stato poi compensato dal consumismo”,
dice in una conversazione col Foglio. “La vera domanda da fare al
mondo quando si mette in discussione la natalità è: come fa a
crescere il prodotto interno lordo se la popolazione non cresce? Gli
illusi dicono che basterebbe fare investimenti in tecnologia e
produttività, ma non li abbiamo fatti. Dicono che si possono
aumentare le esportazioni, ma noi importiamo perché abbiamo
deindustrializzato il mondo occidentale, il 60 per cento delle
produzioni è andato in oriente. La risposta è stata una sola: si
aumentano i consumi individuali, ergo non si risparmia più spendendo
tutto progressivamente – in Italia negli anni Settanta il tasso di
risparmio prodotto dalle famiglie era del 25 per cento oggi siamo
sotto il 5, abbiamo trasferito il risparmio in consumi. Se viene a
mancare il risparmio viene quindi a mancare la base monetaria del
sistema bancario, le banche non hanno più quel flusso di capitale
per finanziare gli investimenti e quindi s’inventano i derivati.
Ovviamente sacrificare il risparmio non
basta, le famiglie si indebitano ed è questo che ha mantenuto in
piedi la crescita economica negli ultimi quindici anni”. “L’effetto
più importante che ha fatto scoppiare la crisi – sottolinea – è
il conseguente invecchiamento della popolazione. Anche se resta
uguale come numero cambia come struttura: se negli anni Settanta la
percentuale di anziani che andavano in pensione, e dovevano essere
sostenuti dal punto di vista sociale e sanitario, era circa il 12 per
cento, oggi sono il 25-30 per cento, dipende dai paesi. Significa che
abbiamo raddoppiato i costi fissi sociali, i costi della vecchiaia, e
questo cos’ha provocato? Tasse. Per assorbire i costi si aumenta la
pressione fiscale, che tra tra il 1975 e il 1980 in Italia era al 25
per cento e oggi è il doppio. Raddoppiando le imposte abbiamo ucciso
i consumi e gli investimenti”.
“Se non capiamo che questa è la diagnosi,
non possiamo studiare la prognosi”, dice Gotti Tedeschi, le cui
tesi sono state spesso osteggiate in varie sedi. Il banchiere
cattolico pregusta un’altra rivincita – di recente sono cadute le
accuse infamanti, giudiziarie e personali, nei suoi confronti
risalenti a quando amministrò l’Istituto per le opere religiose,
la banca del Vaticano, dal 2009 al 2012 – dopo anni di studi e
conferenze sull’ineluttabilità di un ritorno delle nascite come
chiave per arrestare il declino economico e demografico. “Chi
avanzava ipotesi simili veniva tacitato, ora ci anticipano dicendo
che la soluzione non può essere quella di fare figli. Non stiamo più
parlando di teoria ma di pratica. Questo non è un problema di
carattere morale, il solito terreno sul quale viene spento il
discorso anche da una certa ‘sinistra cattolica’. Per non parlare
dei filosofi delle teorie neomalthusiane, intrinsecamente nichiliste,
che hanno il terrore di sentirsi dire che dobbiamo tornare a fare
figli”, dice Gotti Tedeschi (che ne ha cinque). Le teorie derivanti
dagli studi del demografo inglese dell’Ottocento, Thomas Malthus,
secondo il quale il mondo sarebbe stato talmente sovrappopolato da
non potere più soddisfare i fabbisogni dei suoi troppi abitanti sono
state riscoperte negli anni Settanta. Hanno influenzato un’intera
generazione, quella delle battaglie abortiste e divorziste, e si sono
propagate sotto forma di ricerche e studi di blasonati atenei
americani, come Stanford e il Massachusetts Institute of Technology.
A livello pratico i risvolti furono altrettanto significativi. Nel
1970 il governo indiano ordinò sterilizzazioni di massa. Nel 1980 la
Cina adottò la “politica del figlio unico” (comincerà ad
abbandonarla gradualmente entro i prossimi due anni).
Nel 1974 le Nazioni Unite organizzarono
la prima World Population Conference per discutere del controllo
della popolazione. Fortunatamente il dibattito era talmente sterile
che simili assise in pompa magna, programmate a cadenza decennale,
non si sono più ripetute dopo l’ultima edizione del 1994 al Cairo.
La “bomba demografica” tanto discussa e temuta non è mai
scoppiata, anzi: dal 1975 la popolazione globale è passata da 4 a 6
miliardi, il problema è che nel mondo occidentale è rimasta stabile
a 2 miliardi, il progresso è stato altrove. Nella capitale egiziana
il prossimo mese si terrà un’altra conferenza delle Nazioni Unite
per discutere anche del contrasto al cambiamento climatico globale.
Una nuova “religione laica panteistica” (copyright Gotti
Tedeschi), quella dell’ambientalismo, non meno insidiosa visti gli
intrecci con la demografia. L’edizione globale del New York Times
del 7 luglio, prendendo a pretesto la ricorrenza delle due conferenze
cairote, proponeva ricerche a iosa sui benefici che un rallentamento
(ulteriore?) della popolazione mondiale avrà sull’effetto serra.
L’auspicio è che anche nella pur feconda Africa subsahriana il
tasso di natalità s’arresti al 2,1 per cento (il tasso di
sostituzione, cioè due figli per coppia) quanto basta per mantenere
la popolazione costante: “Così sfamare gli abitanti della regione
sarà più facile, la deforestazione non sarà più un problema e si
ridurrà sensibilmente il tasso di anidride carbonica
nell’atmosfera”.
Gioiscono per la recessione demografica anche
altri “esperti” che invece hanno avuto eco sulla stampa di casa
nostra. Michael Teitelbaum di Harvard e Jay Winter di Yale hanno
trovato ospitalità sulle colonne di Repubblica con la loro ultima
ricerca sulla “diffusione globale della infertilità” esposta
nell’articolo intitolato “Bye-Bye Baby” del 28 aprile.
Svolgimento: evviva! La diminuzione delle nascite non fa più
distinzioni tra nord o sud, est o ovest del mondo: la “denatalità
spazia” dal Brasile all’Iran, dal Bhutan al Salvador,
dall’Armenia al Qatar, ed è una svolta epocale tutta positiva
perché associata ai maggiori diritti femminili, e contribuirà a uno
sviluppo sostenibile. Poco importa se i “soliti pessimisti” come
l’Economist o Jonathan Last (autore di “What to Expect When No
One’s Expecting: America’s Coming Demographic Disaster”),
oppongono la drammatica evidenza dei fatti. D’altronde il
sillogismo “meno culle, meno crescita” è lì da sempre. Emergeva
già dalle cronache dello storico Polibio nel 150 a. C., quando a
causa di una generale diminuzione della popolazione e del tasso di
natalità in Grecia, le città s’erano trasformate in deserti e le
campagne avevano smesso di dare raccolti. Nel 1938 fu l’economista
americano Alvin Hansen, studioso della teoria keynesiana, a sostenere
che il crollo della popolazione attiva in un sistema capitalistico a
trazione industriale, come quello americano, avrebbe disincentivato
le imprese a investire perpetuando così lo stato semicomatoso
dell’economia.
Lo stato dell’economia, o la
percezione che se ne ha, influenza a sua volta le scelte di vita.
Adam Smith individuò nell’incertezza economica uno dei fattori del
calo della fecondità. La correlazione tra l’aumento della
disoccupazione e la diminuzione di matrimoni e convivenze è invece
dimostrata dalla demografa francese France Priux. Il che spiega come
mai in America la risposta istintiva alla recessione del 2009 è
stata quella di posticipare progetti di vita in coppia per il 20 per
cento dei giovani (18-24 anni) interpellati dal Pew Research Center.
Va da sé che quando l’economia rifiata, la natalità tende a
recuperare.
Tuttavia i condizionamenti, le ideologie e gli
auto-convincimenti scoraggianti sono parecchi, sociali, economici e
culturali: “Ci viene insomma detto che fare figli non conviene, è
indecente, danneggia l’ambiente: fare figli in sostanza non serve”,
è la brutale sintesi di Gotti Tedeschi. Il riscatto, o la speranza
di esso, può dunque essere ricercato a cominciare da una
riforma dell’uomo, dalla riscoperta intima del senso di una vita
che merita di essere vissuta appieno. “La risposta in questo caso –
dice Gotti Tedeschi da cattolico – viene dall’enciclica di
Benedetto XVI ‘Caritas in Veritate’, dove la crisi economica è
spiegata magistralmente, e dalla successiva ‘Lumen Fidei’,
vergata da Papa Francesco, che rappresenta il capitolo successivo:
bisogna rifare l’uomo, l’emergenza è soprattutto educativa.
Abbiamo dentro di noi la visione della creazione, cioè che la vita
ha un senso.
Il positivismo relativista invece nega la
vita. L’uomo nichilista ha ormai confuso fini e mezzi ma come può
prescindere da dei valori solidi in un momento di così forte
globalizzazione?”, aggiunge il banchiere. Il risultato è che
spesso si antepongono delle supposte esigenze materiali alla
prosecuzione naturale della vita come frutto del rapporto di coppia,
oppure ci si riduce a trasferire l’amore paterno e materno su dei
surrogati. Papa Francesco in un’omelìa a Santa Marta lo scorso
giugno ha così esternato il problema con un ammonimento: “I
matrimoni sterili per scelta, che non vogliono i figli, che vogliono
rimanere senza fecondità non piacciono a Gesù”. “Questa cultura
del benessere di dieci anni fa, che ci ha convinto che è meglio non
avere i figli, così tu puoi andare a conoscere il mondo, in vacanza,
puoi avere una villa in campagna. Così tu stai tranquillo… Forse è
più comodo avere un cagnolino, due gatti – ha aggiunto – e
l’amore va ai gatti e al cagnolino” ma “alla fine, questo
matrimonio arriva alla vecchiaia in solitudine, con l’amarezza
della cattiva solitudine. Non è un matrimonio fecondo”.
Il Vicario di Cristo ha parlato
dall’epicentro di una crisi demografica globale: l’Europa, dove
la crescita economica langue e il rifiuto della vita assume i
connotati di un’estinzione autoindotta che pare assurda agli occhi
di chi ci guarda (“davvero il sesso è diventato solo un gioco per
voi? Probabile, ma in questo modo mi pare stiate percorrendo una via
pericolosa che porta all’estinzione”, si domandava ad esempio
l’economista americano Arthur Laffer, parlando col Foglio). Ora
l’economia leader dell’Eurozona, quella tedesca, ha una crescita
incostante e soffre una demografia deprimente, guida le classifiche
per invecchiamento della popolazione e per bassa natalità. Un
problema che la cancelleria di Berlino non ha affrontato. Non a caso
ieri Moody’s, stante il giudizio positivo per un’economia
altamente competitiva – soprattutto grazie alle riforme del mercato
del lavoro dei primi anni Duemila – se vorrà essere l’unico
paese dell’area euro a conservare la tripla A dovrà guardarsi dal
“calo della forza lavoro e una popolazione sempre più in là con
gli anni che potrebbero avere effetti negativi sul tasso potenziale
di crescita e sulla sostenibilità dei sistemi di welfare”.
La Germania è scossa da un “baby
choc”: negli ultimi dieci anni ha “perso” due milioni di
bambini non nati e vede soltanto otto nuovi neonati ogni mille
abitanti, tasso che si ridurrà del venti per cento nelle prossime
due generazioni. Sull’incubo “estinzione dei tedeschi”
s’interrogava anche la Bild ed è uno spauracchio che contagia
anche la Grecia, agli antipodi della crisi dell’eurodebito. Nel
2011, per la prima volta, il numero di residenti in Grecia è sceso e
i decessi hanno superato le nascite. Se la “carestia” europea
proseguirà di questo passo, con tassi di fecondità che non sono mai
scesi così in basso, così rapidamente e ovunque, nemmeno all’epoca
della peste, gli stati europei “dovranno dichiarare
fallimento”, dice con una certa enfasi il sociologo americano Ben
J. Wattenberg.
Anche in Italia i decessi superano le
nascite, di 86 mila unità, una tendenza che si è affermata già nei
primi anni 90 e che recentemente si è accentuata pesantemente: il
gap si sta allargando. L’anno scorso il numero di nati (514 mila)
ha toccato il minimo storico dal 1861, anno dell’Unità d’Italia,
e quest’anno molto probabilmente resterà sotto tale soglia a
giudicare dalla contrazione delle nascite dei primi due mesi
dell’anno (meno 4 per cento). La “piramide dell’età”
si sta rovesciando: la popolazione invecchia costantemente con una
quota di 65enni che rappresenta il 22 per cento della popolazione.
Quota simile in Germania (23,1) e in Giappone (26,4). Tra
cinquant’anni nel nostro paese ci saranno 1,2 milioni di ultra
95enni, con un costo di circa 7 miliardi l’anno ove ricevessero un
ipotetico assegno d’accompagnamento da 500 euro al mese. L’idea
che l’immigrazione possa rappresentare una soluzione duratura, come
spesso si dice, è discutibile e soprattutto non aggredisce il
problema. Come dice al Foglio il demografo Gian Carlo Blangiardo
dell’Università Bicocca di Milano, “oggi arrivano immigrati che
saranno presto anziani e anche loro avranno bisogno di cure. Se di
fatto acquistiamo persone in gran parte istruite, e quindi
risparmiamo sui costi di formazione, è ben altro bilancio quello che
si prospetta sul welfare.
Dobbiamo dunque ripetere – dice
Blangiardo – che l’unico efficace antidoto all’invecchiamento
demografico va cercato non all’esterno ma dentro a una società che
sia in grado di riconoscere e valorizzare, come un investimento, il
contributo che ogni neonato, a prescindere dal passaporto, è in
grado di offrire”. Blangiardo, tra gli altri, sostiene che sia
necessario prendere provvedimenti collegiali e d’impatto (a
proposito vengono spesso citate le politiche abitative, il social
housing sul quale è attiva la Cassa depositi e prestiti) capaci di
scoraggiare il rinvio della scelta genitoriale, meglio se da giovani
(le maggiore parte delle donne diventa madre tra i 34 e i 39
anni). I ragazzi lasciano il “nido” sempre più tardi. La
percentuale di giovani, tra i 18 e i 34 anni, a casa coi loro
genitori è aumentata dal 60 al 64 per cento negli ultimi quattro
anni, dice Eurostat. E a volte chi si trova in difficoltà
economiche, anche in più in là con l’età, è costretto a
ritornare dai genitori che magari dispongono di una discreta
pensione. Convivenza tra i figli del “baby boom” e gli artefici,
incolpevoli, del “baby crash” odierno. Finora governi politici o
tecnici non hanno inciso. Il governo Berlusconi aveva elaborato,
nell’ambito dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, un Piano
nazionale di politiche per la famiglia che da anni è fermo alla
presidenza del Consiglio. Ultimamente s’è avanzato un non meglio
precisato Piano per la fecondità. Molti osservatori ormai ritengono
sia ora, anche qui, di affrontare il calo demografico come
un’emergenza economica grave.
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